Nella sua relazione all’assemblea annuale dell’Anie di mercoledì il presidente Claudio A. Gemme ha ricordato le grandi opportunità di sviluppo della nostra filiera produttiva elettrotecnica ed elettronica che derivano dalla cosiddetta Industria 4.0 (convergenza di automazione e Ict). Si è anche augurato che il Paese voglia dotarsi «di un disegno di politica industriale di lungo periodo più volte annunciato dal governo e fortemente atteso dall’industria», rilanciando gli investimenti industriali in ricerca, sviluppo e innovazione «che sono a beneficio non di una singola impresa, ma del sistema nel suo complesso». Infatti il Paese «necessita di un grande piano di ammodernamento e di riqualificazione energetica ed ambientale delle abitazioni, degli edifici pubblici, delle reti infrastrutturali, del nostro meraviglioso patrimonio storico e artistico».
Benvenuti questi accenti, perché è tempo che si smetta lo sterile dibattito che contrappone la “politica dei fattori” tramite incentivi “orizzontali” ad una “politica dei settori” di stampo dirigistico che va incontro ai ben noti fallimenti dei governi. Oggi nessuno chiede il ritorno ai “piani di settore” degli anni 70 o al colbertismo che «sceglie i vincitori e salva i perdenti»: una «insana idea della politica industriale» per usare titolo e sottotitolo del ricco provocatorio volume di Franco Debenedetti (Marsilio 2016).
Ma perché continuare a rifiutare l’evidenza, ben chiara nei programmi di politica industriale in Germania, Regno Unito, Francia e altri Paesi europei all’insegna di “Horizon 2020” e di “Europa 2020”, che il mercato da solo non basta a incanalare le migliori potenzialità delle imprese nazionali per affrontare efficacemente le sfide dell’Industria 4.0, tanto più in un sistema produttivo così frastagliato come il nostro? I documenti governativi e la Commissione Europea, così come una infinità di studi e ricerche, non si stancano di ribadire quanto sono importanti l’innovazione tecnologica e organizzativa, le infrastrutture di rete, gli investimenti in capitale umano, l’inserimento nelle catene globali del valore – oltre a burocrazia e giustizia “business friendly” - per essere competitivi nel mercato globale (Stefano Manzocchi sul Sole del 13 giugno).
Ma perché continuare a esorcizzare un nostalgico “determinismo industriale” (che nessuno chiede, forse a parte qualche frangia di populismo economico), anziché chiedere al governo di dotarsi di una visione lunga, per cui una parte consistente degli incentivi all’industria e ai servizi venga utilizzata per chiamare a raccolta le imprese migliori (grandi, medie, piccole) intorno a grandi programmi come la rigenerazione urbana e abitativa (smart housing, smart cities), l’efficienza energetica, la mobilità ecosostenibile, l’automazione della “fabbrica del futuro” e altri ancora? Programmi necessari per catalizzare e interconnettere in “ecosistemi innovativi” tanti pezzi dispersi delle nostre filiere e dei nostri territori. Solo per citare un esempio ancora dalla relazione Anie, quanti sanno che «le tecnologie italiane che agiscono sulle smart grid – dai contatori ai sistemi di accumulo – sono tra le più avanzate al mondo»? E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, anche se questo “made in Italy” è assai meno popolare di quello a tutti noto, legato ai nostri splendidi settori tradizionali di moda-arredo-gioielleria-alimentare.
Questi programmi non devono naturalmente essere delegati a (pur talora competenti) dirigenti e funzionari ministeriali, ma devono responsabilizzare le imprese leader, le migliori competenze scientifiche e coinvolgere esperti indipendenti anche non italiani, con metodologie di valutazione progressiva e indipendente dei risultati a cui collegare con trasparenza l’allocazione delle risorse pubbliche disponibili (i famosi incentivi).
Questa è ancora una «insana idea della politica industriale»?
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