Le banche centrali stanno stendendo un cordone sanitario attorno al referendum sul Brexit. Siamo quindi probabilmente preparati a un eventuale shock finanziario, ma c’è da chiedersi se le istituzioni europee – governi nazionali inclusi – si siano preparate a rispondere all’onda di giovedì anche politicamente. Non si tratta di riaprire un negoziato bilaterale con Londra. È già stato fatto in modo molto penoso nei mesi scorsi. Nemmeno di annunciare uno dei gesti simbolici di cui si è discusso tra le cancellerie europee nelle ultime settimane. Bensì di dare una vera risposta politica di segno opposto al percorso disintegrativo aperto dal referendum britannico.
La lezione del referendum britannico è che la retorica nazionale si imbarbarisce facilmente quando si incentra sulla distinzione tra ciò che sta dentro i confini e ciò che ne è esterno. Scriveva Raymond Aron che una società moderna è una democrazia che possa essere osservata senza eccitazione né indignazione. Il linguaggio sui confini della sovranità è in questo senso un linguaggio antico che spesso si sottrae al razionale. L’impatto emotivo dell’assassinio di Joe Cox sta ridimensionando l’attrattiva del Brexit proprio perché ha fatto scavalcare il confine della violenza a quella parte delle motivazioni di Brexit nelle quali si nascondeva un’aggressività latente fatta anche di razzismo o di nativismo etnico.
Pulsioni simili si stanno diffondendo in tutta Europa. Di recente, un importante parlamentare tedesco ha parlato degli avversari politici come del frutto di un sangue non più puro. In tutte le nostre società c'è un allontanamento dal moderno e una tentazione di chiusura.
Le istituzioni europee devono reagire al regresso britannico – e di tanti altri paesi - dando un segnale di volontà nell'avanzamento istituzionale. Il linguaggio della società aperta e della sovranità condivisa, intrinseco all'idea europea, deve essere recuperato comunque vada il voto di giovedì. Nel caso di vittoria, il Brexit porterebbe un cambiamento di natura costituzionale per la Gran Bretagna con conseguenze di lungo termine non facilmente misurabili. La sequenza degli effetti di breve termine è però già sufficiente a preoccupare. Nel caso di instabilità grave, si combinerebbe un rischio di recessione con la necessità di difendere la sterlina aumentando i tassi d'interesse. Il disavanzo dei conti con l'estero e il risparmio negativo del paese possono spingere Londra verso una recessione più lunga che scoraggerebbe gli afflussi di capitale dall'estero.
A quel punto, la necessità di difendersi dalla concorrenza delle altre piazze finanziarie renderebbe Londra ancora più dipendente dal proprio settore finanziario. La difesa avverrebbe attraverso una riduzione degli standard regolatori e un ulteriore taglio delle tasse sull'industria finanziaria. Trasformandosi in un grande paradiso fiscale, Londra diventerebbe un paese ostile agli ex alleati. Ma anche nel caso di una sconfitta del Brexit la situazione non sarebbe semplice. Se come è probabile la maggior parte degli elettori conservatori sostenessero il Brexit e finissero quindi sconfitti, difficilmente potrebbero riconoscersi ancora nel primo ministro Cameron che li ha condotti alla sconfitta e poi ha cercato di provocarla. La leadership del partito e del governo si combatterebbero dunque attorno a chi assumerà il tono più conflittuale nei confronti di Bruxelles.
Anche nelle democrazie, il linguaggio “nazionale” perde i connotati democratici quando si confronta con temi e interessi che non riguardano solo gli elettori nazionali. Ma in Europa nemmeno la Gran Bretagna è un'isola. Esporta il 50% dei propri beni e il 35% dei propri servizi nell'Ue. Isolarla significherebbe lasciarla affondare. Non sarebbe accettabile all'idea europea. Qualunque sia l'esito del referendum britannico, le istituzioni europee sono chiamate dunque a costruire una prospettiva che superi la contraddizione politica in cui si è intrappolata Londra. C'è nell'insofferenza britannica anche una domanda di democrazia, il ricordo fondativo dell'ultima guerra e quindi il rifiuto per una struttura gerarchica che appare oggi tanto più provocatoria perché vede al comando Berlino. La risposta europea deve offrire una forma più trasparente ed equilibrata di condivisione delle sovranità tra i paesi che si riconoscono nel progetto di integrazione. Sarebbe la strategia più coerente da parte europea – e in particolare della Germania pacifica ed europeista del dopoguerra – per non chiudere la porta a Londra e a se stessa.
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