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La vittoria del «leave» e le ricadute su Usa e Cina

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L'Editoriale|Editoriali

La vittoria del «leave» e le ricadute su Usa e Cina

Il voto su Brexit non può non avere conseguenze nel complesso reticolo delle relazioni finanziarie ed economiche mondiali così come ha dimostrato il forum organizzato dal Sole 24 Ore e pubblicato ieri. Naturalmente, nel caso il Regno Unito decidesse di rimanere nella Ue, si ridurrebbe un fattore potenzialmente importante di volatilità dei mercati, legato all’elevata probabilità dell’evento estremo, la fuoriuscita dalla Ue, che ne ha reso difficile l’hedging sino ad ora. Ma anche in caso di vittoria del “remain” potrebbe continuare una fase di instabilità legata ai tempi e ai contenuti del negoziato tra Ue e Regno Unito e ai possibili rischi imitativi di Paesi interessati a rinegoziare le condizioni di appartenenza all’Unione.

Negli Stati Uniti, il cui mercato azionario rappresenta almeno la metà della capitalizzazione mondiale, si tende, nel complesso, a ridimensionare l’impatto della Brexit, poiché le aziende quotate con esposizione significativa al mercato britannico sono poche. Se si aggiunge che le grandi banche internazionali, tra cui molte americane, hanno scommesso sulla vittoria del fronte pro-Ue, sono vari i fattori che hanno contribuito a calmierare finora la volatilità dei mercati anche quando i sondaggi davano il fronte Brexit in vantaggio.

Nel caso proprio tale fronte dovesse uscire vittorioso dalle urne, il picco di volatilità che si produrrebbe nei mercati troverebbe le banche centrali sistemiche – degli Stati Uniti, dell’Eurozona e del Giappone, ma anche della Cina – pronte a cooperare con la Banca d’Inghilterra per arginarne la portata. Del resto, la crisi finanziaria internazionale cominciata nel 2007 ha testato la capacità di questi attori di intervenire in modo concertato di fronte a minacce sistemiche.

Non è un caso che in seguito alla crisi finanziaria, le banche centrali del C6 – vale a dire di Canada, Regno Unito, Eurozona, Giappone, Svizzera e Stati Uniti – hanno formalizzato un network di swap bilaterali potenzialmente illimitato. Proprio la Federal Reserve non ha esitato a rifinanziare il sistema bancario dell’Eurozona – per il tramite della Bce – al picco della crisi dei debiti sovrani, quando l’accesso del sistema bancario residente al mercato interbancario denominato in dollari si era rarefatto. Interventi simili erano stati già condotti dalla Fed per puntellare il sistema finanziario della Corea del Sud e di Singapore durante la crisi finanziaria internazionale. Recentemente, poi, la Fed e la Banca centrale cinese hanno rafforzato i rispettivi canali di comunicazione proprio nell’aspettativa di interventi concertati di fronte a minacce sistemiche.

In realtà, le maggiori conseguenze della Brexit sul piano delle relazioni economiche si avvertirebbero sul piano geostrategico, inducendo un riposizionamento di Stati Uniti e Cina su alcuni dossier rilevanti per il Regno Unito e la Ue. Per cominciare, l’accordo di libero scambio e cooperazione economica (Ceta) di nuova generazione siglato, in linea di principio, con il Canada, che dovrebbe essere ratificato il prossimo anno, rischierebbe di entrare in stallo. Il Regno Unito si è adoperato per rimuovere quegli ostacoli che, in sede Ue, ne avrebbero compromesso l’approvazione. La sua fuoriuscita riaprirebbe il contenzioso su alcuni capitoli negoziali importanti relativi agli investimenti e ai meccanismi di risoluzione delle dispute.

Se per la Ue l’accordo con il Canada non ha valore sistemico, la frenata sul Ceta produrrebbe, però, un’analoga battuta di arresto sui negoziati per il Ttip, un analogo accordo di libero scambio e cooperazione economica, questa volta con gli Stati Uniti che non sono particolarmente entusiasti di entrare in un accordo con l’Eurozona a crescita piatta e con un surplus strutturale nelle partite correnti. Il venir meno del Regno Unito, il pilastro del libero scambio nella Ue, ne comprometterebbe l’interesse in modo forse irreversibile.

Anche la Cina dovrebbe riposizionarsi rispetto ad alcuni dossier che ha sinora spinto, contando sull’appoggio del Regno Unito nell’Ue. Primo fra tutti, l’obiettivo di fare di Londra la principale piazza finanziaria per l’internazionalizzazione dello yuan, importante per finanziare la modernizzazione della propria economia. Ad oggi, Londra è al secondo posto dopo Hong Kong nelle emissioni off-shore, ma tale posizione di preminenza verrebbe ridiscussa se la centralità della sua piazza finanziaria dovesse essere compromessa dal referendum.

Ma vi è un altro, ancor più importante dossier per Pechino, che verrebbe definitivamente compromesso: quello di negoziare un accordo di libero scambio con la Ue rispetto al quale il Premier britannico, David Cameron, ha già dato la sua disponibilità ma che vede la Commissione e gli altri membri della Ue scettici, timorosi della prospettiva di un “invasione” del mercato unico di prodotti a basso costo.

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