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Io, inglese, prenderò il passaporto italiano (di Tim Parks)

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IL DAY AFTER DELLO SCRITTORE

Io, inglese, prenderò il passaporto italiano (di Tim Parks)

(Olycom)
(Olycom)

Non sono sorpreso. Anzi, sono sorpreso da chi è sorpreso. Non erano settimane che i sondaggi davano un testa a testa tra i due schieramenti?

E non sono scandalizzato. Se ne avessi avuto il diritto (in Inghilterra chi vive fuori da oltre 15 anni non ha più diritto di voto), avrei votato per restare nell’Unione, ma non mi sembra uno scandalo che qualcun altro la pensi diversamente.

Da cosa derivano allora l’incredulità e l’indignazione generale, di amici sia italiani che inglesi, di chi mi manda persino sms offensivi? Intorno alla Ue, negli ultimi vent’anni si è andata formando l’idea che sia in qualche modo la massima espressione della cultura occidentale, sinonimo addirittura di cultura europea, e che non possa esserci un futuro europeo benevolo senza questa «comunità», parola positiva per eccellenza.

Di conseguenza, chiunque voglia restarne fuori è un ignorante, un guastafeste, forse vittima di un bieco populismo. O peggio. E questa convinzione ha soffocato ogni dibattito. Non c’è nulla di cui parlare, se non forse della follia, l’arretratezza e la cattiveria di chi non condivide quest’idea dominante, di chi è “contro la storia”.

Questa posizione è stata fin troppo evidente nella scelta di interlocutori inglesi compiuta per esempio dai quotidiani nazionali italiani. Era rassicurante sentire Ian McEwan che diceva che l’Europa comunitaria esprime il massimo della civiltà umana e che bisogna rimanerci a tutti i costi perché sarà l’Unione a salvare il mondo. Era divertente per me leggere, sul «Corriere della Sera», Jonathan Coe che con accenni a Swift e Samuel Johnson ridicolizzava i suoi connazionali che osavano pensare a un destino diverso. Ma mai, per quanto ne so io, abbiamo avuto occasione di leggere l’approfondimento di una persona sensata e autorevole che sosteneva la linea opposta – Larry Eliot, per esempio, economista di «The Guardian», o Gisela Stuart, deputato laburista per la città di Birmingham, nata e cresciuta in Germania e leader della campagna per uscire dall’Unione.

Non c’è modo migliore per aizzare i propri avversari ed esasperare il clima politico che questo rifiuto di un vero dibattito, questa presunzione che un uomo ragionevole non possa non compiere la nostra stessa scelta; che effettivamente, con l’Unione Europea, la storia sia finita.

Tutto ciò sarebbe comprensibile se la Ue stesse riscontrando grandi successi, mostrando solidarietà, risolvendo i tanti problemi degli stati membri, o se avesse almeno una faccia, una persona con cui identificarla, di cui si potrebbe dire “Per quanto le cose vadano male, io mi fido di tal dei tali, credo davvero che abbia a cuore gli interessi della mia nazione, che davvero pensi alla disoccupazione giovanile nella mia città”.

Si potrebbe mai dire qualcosa di simile di Jean-Claude Juncker, o di Angela Merkel? Sappiamo benissimo che per quanto si tratti di una comunità di nazioni, la persona più potente in questa comunità è il primo ministro tedesco. E gli inglesi non votano per il primo ministro tedesco. Come nessuno di noi ha votato per Juncker. In effetti, quando votiamo per le cosiddette elezioni europee votiamo dentro una logica assolutamente nazionale.

Dopo tanti anni, questo è un fallimento notevole. Dopo quindici anni dall’ingresso dell’euro è un fallimento devastante che le economie di Francia, Spagna, Italia, Grecia e molti altri paesi si trovino nelle attuali difficoltà. Ma il peggior fallimento dell’Unione è che, con tutto il libero movimento delle persone (un diritto splendido), non c’è stato un minimo di avvicinamento culturale tra i vari paesi membri. Governati, almeno fino a un certo punto, dalla Germania, dei tedeschi sappiamo poco o nulla. Leggiamo solo i nostri quotidiani nazionali, i quali, se ospitano un giornalista straniero, opteranno immancabilmente per un americano, un inglese o un francese. Mai un tedesco o un polacco, raramente uno spagnolo. Siamo rimasti in nazioni separate, ma vincolate da una volontà altrui. Accettiamo diktat sul debito da Bruxelles, ma leggiamo romanzi americani, guardiamo film americani, seguiamo le elezioni americane molto più attentamente che non quelle di qualunque paese dell’Unione. Non può dirsi, questa, una “comunità”. La nostra identità collettiva rimane quella nazionale, ma imbrigliata, castigata, tranne, ogni tanto, in 90 minuti di delirio calcistico.

Non sono perciò né sorpreso né scandalizzato da questa Brexit. Ma sono assolutamente disorientato. Avrei votato per rimanere, perché volevo continuare a credere, nonostante tutto, in un progetto condiviso, volevo credere in una svolta che avrebbe portato a una comunità davvero unita, e non solo un bunker commerciale contro il mondo. Avrei voluto che la campagna per restare avesse insistito su un’idea positiva dell’Unione che potesse animare le menti, e invece non ha fatto altro che cercare di spaventare la gente con le conseguenze economiche di un’uscita. L’idea positiva, quella di riprendere il controllo del proprio destino, l’avevano gli altri. E per quanto non manchino anche i grezzi xenofobi, dubito che siano la maggioranza. Semplicemente, gli inglesi non credevano più in questa famosa svolta della Ue, e non hanno avuto paura di rompere l’incanto.

E adesso?

Adesso vado a chiedere la cittadinanza italiana. Dovevo farlo anni fa. Non voglio essere considerato un “extracomunitario” nel paese in cui vivo da trentacinque anni. Lo farò con allegria e ottimismo. Ma tiferò Inghilterra contro l’Islanda, ma anche l’Irlanda (la terra dei miei nonni) contro la Francia, e pure il Galles nel prossimo turno. L’identità è una faccenda complessa.

Tim Parks (Manchester 1954) è uno scrittore e professore inglese. Collabora al Sole 24 Ore,alla New York Review of Books, alla London Review of Books . Il suo libro più recente in Italia è «Di cosa parliamo quando parliamo di libri» (Utet)

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