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Bocciato un modello economico

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Scenari

Bocciato un modello economico

Un abuso della democrazia. Quello a cui tutto il mondo ha assistito dal momento in cui David Cameron si è impegnato a indire un referendum per «permettere ai cittadini britannici di dire la loro» sull’Europa non può essere definito in altro modo.

Sono fra quelli che ancora oggi rimangono attoniti davanti ad analisi che – a prescindere dall’esito – leggono nella decisione dei britons uno dei momenti più alti della storia democratica dell’Europa o, per conferirgli un fascino ancora più romanzesco, un esempio di come i leader politici possano mettere in condizione i cittadini di “autodeterminarsi”. Negli eventi che hanno portato ai risultati del referendum non c’è nulla di tutto questo. Non ci sono politici illuminati, e tantomeno siamo di fronte a un avvenimento che cambierà la storia dell’Europa sulla base di una decisione popolare informata, come dovrebbero esserlo tutte quelle che incidono in modo così evidente sulla vita delle prossime generazioni.

Le istanze alla base della nascita del referendum sono state sotto gli occhi di tutti da mesi, e si basano sostanzialmente su una convinzione esecrabile, secondo cui chiamare i cittadini al voto avrebbe in qualche modo risolto i nodi interni al partito dei conservatori su quale dovesse essere l’approccio condiviso all’Europa. Questo è il motivo per cui la democrazia è stata abusata e piegata per dirimere le faide interne a un partito, e non lo è stata solo nel merito, ma anche nel metodo. Pensare che un referendum realizzato nei termini che abbiamo visto sia un esempio di esercizio democratico è semplicemente una distorsione. Nei secoli, le democrazie moderne sono state sottoposte a continui aggiustamenti perché potessero evolversi in sistemi complessi, fatti anche di contrappesi, momenti di verifica e istituzioni indipendenti, per proteggere gli interessi delle minoranze ed evitare decisioni repentine, magari poco informate e con il potere di cambiare in modo irreversibile il futuro dei cittadini. Nel Regno Unito, la definizione del referendum richiedeva una maggioranza semplice; considerando che l’affluenza è stata all’incirca del 72%, questo indica che la brexit sia stata decisa dal 37% degli aventi diritto. Un dato che rende molto condivisibile il pensiero di Kenneth Rogoff (si veda l’articolo sotto) e di molti altri osservatori, che hanno definito questo referendum non un momento di democrazia, ma una “roulette russa”. Quanto al livello e alla qualità di informazioni che hanno descritto questo processo, Google ci fa sapere che nel giorno in cui i risultati del referendum sono diventati pubblici, è stato registrato un picco di ricerche nel Regno Unito, che interrogavano il motore di ricerca su «cosa fosse l’Unione Europea».

A completare il quadro, stiamo adesso assistendo ad un atteggiamento di totale sbandamento, che traspare sia dal governo britannico che dall’opposizione, con Cameron che rinvia la riunione parlamentare, unica autorità che può “ufficializzare” l’esito del referendum e invocare l’articolo 50 dei Trattati Europei. Un’immagine in forte contrasto con quella di un Paese da sempre considerato un leader nella geografia economica e sociale globale, a cui tutti riconosciamo gli enormi meriti storici che si è guadagnato nel tempo proprio per aver costruito una delle democrazie più avanzate nel mondo. Cosa è accaduto, allora?

È certo che nel Regno Unito abbiamo assistito ancora una volta alla manifestazione di un rancore e di una ricerca a volte fine a se stessa di contrapposizione alle dinamiche attuali che pervade ed influenza in modo pericoloso il dibattito politico nel mondo occidentale. Tuttavia, mai come in questo caso, le spinte populiste devono essere considerate un sintomo dei più profondi trend economici e sociali che stanno attraversando il Paese. La narrativa a supporto della brexit specialmente negli ultimi mesi si è infatti nutrita del senso di insicurezza della working class inglese, generata proprio da quei flussi migratori che in passato hanno giocato un ruolo determinante nel costruire la posizione di centralità che il Regno Unito ricopre nello scacchiere internazionale. Secondo l’osservatorio sull’immigrazione dell’Università di Oxford, gli ingressi in UK di cittadini provenienti dall’Unione Europea si è mantenuta costante tra il 1991 e il 1993, a circa 61mila persone ogni anno. Dopo l’allargamento della UE del 2004, questo numero ha registrato un’impennata, arrivando a una media di 170mila nuovi ingressi ogni anno. Questi numeri ci consegnano una realtà in cui – anche alla luce dei risultati del referendum – è evidente uno scollamento percepito tra la direzione in cui il Paese sta crescendo e la necessità dei suoi cittadini di assicurare alle future generazioni lavoro e sicurezza. D’altra parte, proprio questi dati suggeriscono anche come la profonda spaccatura interna al Paese debba essere letta superando le tradizionali contrapposizioni tra giovani e vecchi o tra città e periferie; in ultima istanza, nel Regno Unito abbiamo invece assistito a un momento concreto di confronto tra chi ha guadagnato e chi ha perso dal fenomeno della globalizzazione.

Utilizzando questa lente, il voto assume un’importanza che prescinde dai confini nazionali ed europei, e impone una riflessione più profonda.

Da settant’anni il mondo ha continuato ad “aprirsi” con intuizioni straordinarie, come quelle dei padri costituenti dell’Europa, o sul piano commerciale con il Wto. In tutti questi anni il mondo ha combattuto numerose battaglie, che hanno portato all’abbattimento di antiche barriere, e al superamento di crisi inflative e deflative. Tuttavia, il mondo ha sempre camminato in una sola direzione: l’apertura, dell’Occidente verso l’Oriente, all’interno dell’Occidente stesso e perfino all’interno di Paesi che ancora vivono sotto la dominazione comunista come la Repubblica Popolare Cinese.

Abbiamo vissuto con entusiasmo e certamente speranza l’esplodere della globalizzazione, che ha inaugurato un nuovo corso storico, fatto di opportunità per le imprese, per i consumatori e anche per i lavoratori.

Il voto di giovedì ci ricorda che le cose non stanno così. Ci ricorda, per la prima volta con una veste istituzionale, che la globalizzazione ha creato numerose istanze, e che le istituzioni, la politica, devono essere in grado di dare una risposta ai propri cittadini. La decisione presa dal popolo inglese non può essere letta solo come un voto di protesta contro la mancanza di sicurezza, o l’acuirsi delle tensioni legate ai flussi migratori. È qualcosa di più profondo, e precisamente un voto di sfiducia nei confronti di un modello di sviluppo economico che ha evidentemente lasciato indietro troppa gente. La creazione dell’Unione Europea, così come l’integrazione della Cina nei flussi del commercio globale ha certamente creato un impatto complessivamente positivo sulla vita delle persone; il punto è che questi benefici sono stati distribuiti in modo diseguale. E su questo squilibrio dobbiamo lavorare per guidare il percorso di globalizzazione, dal momento che i meccanismi profondi che hanno portato al voto in Inghilterra sono esattamente gli stessi che hanno determinato l’ascesa di Trump in America, un’altra delle grandi democrazie dei nostri tempi. La speranza è che, negli Stati Uniti, così come negli altri Paesi che stanno cercando i leader politici con cui identificarsi nei prossimi anni, i cittadini siano pronti a stringere un nuovo patto generazionale, approcciandosi al voto in modo che non possano pentirsene il giorno dopo.

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