Commenti

Nazionalismo e protezionismo non sono la risposta alla globalizzazione

  • Abbonati
  • Accedi
Global view

Nazionalismo e protezionismo non sono la risposta alla globalizzazione

La spiegazione più usuale di questi giorni all’esito del referendum sul Brexit la conosciamo ormai a memoria: il risultato rispecchia il divario che c’è fra i cittadini e l’Unione europea, e ci dimostra quanto sia necessario che questa risponda più direttamente alle preoccupazioni dei suoi cittadini. Questo però cosa significa esattamente?

Basterebbe, in effetti, pensare a quanto sia diversa la critica dominante rivolta alla UE da parte dei Paesi del nord e del sud dell’Europa per rendersi conto che questa spiegazione in realtà ci dice poco, e ci aiuta ancora meno a comprendere. Al sud, ogni critica è rivolta alla mancanza di solidarietà presente nella Ue; al nord, però, la maggioranza non vuole altro che porre più limiti alla stessa idea di solidarietà europea.

Quando si dice che l’Unione europea non risponde ai desiderata dei suoi cittadini, ci si dimentica che spesso quei desiderata sono diversi tra loro; a volte sono persino antagonisti. Allora ecco che la prospettiva già cambia, e si capisce che il vero problema europeo è un altro: quello di non saper offrire uno spazio politico capace di conciliare i diversi desiderata dei cittadini, o quantomeno dove poter trovare o costruire dei compromessi tra i diversi desiderata dei cittadini europei.

Per far sì che l’Unione europea possa essere all’altezza di questa sfida, è necessario allora completare il cambio di prospettiva rispetto all’usuale, al già sentito: occorre infatti innanzitutto capire che le sfide che oggi abbiamo di fronte non derivano dalla UE, non ne promanano come conseguenza, ma derivano semplicemente dalla realtà di naturale interdipendenza in cui ormai viviamo.

Oggi viviamo in un mondo economico, sociale, ambientale e culturale integrato; tutti noi lo abitiamo, e la cosa ci porta molti vantaggi, che a volte nemmeno vediamo. Abbiamo un’offerta di prodotti e servizi molto maggiore che in passato, di ben maggiore qualità, e con prodotti e servizi al contempo più economici; abbiamo, rispetto al passato, un’enorme possibilità di circolazione di persone e di idee, di cui tutti in qualche modo usufruiamo.

La conseguenza naturale di questo mondo nuovo e così integrato è che siamo tutti sempre più interdipendenti. Una crisi finanziaria in un Paese comporta alti rischi per molti altri paesi. Un afflusso di rifugiati in un Paese facilmente si traduce in afflussi in altri Paesi. Quest’interdipendenza, che a volte non mettiamo nemmeno a fuoco, ha conseguenze politiche profonde, a loro volta spesso non considerate.

Interdipendenza vuol dire, sul piano politico, che anche quello che si decide in altre democrazie nazionali può avere un forte impatto su di noi, e viceversa. Vuol dire che la politica fiscale di altri Stati può fortemente incidere sulla competitività delle nostre imprese, e quindi, sulla nostra capacità di attrarre investimenti. Allo stesso modo, se vogliamo avere fiducia nei prodotti e servizi che ci scambiamo dobbiamo avere una certa armonizzazione dei criteri secondo i quali questi prodotti e servizi sono prestati, e dobbiamo essere disposti a negoziare questi criteri con altri.

L’idea che in questo mondo naturalmente interdipendente si possa continuare a decidere sempre e solo per se stessi è falsa, è un costrutto puramente artificiale, è in fin dei conti un’illusione ottica.

La politica dominante però, invece di contribuire a rendere trasparente e visibile questa realtà di interdipendenza, si nutre dell’illusione ottica stessa, dell’artificio sopra descritto. Si discute e si fa una politica solo nazionale, ma soprattutto si discute e si fa politica nazionale generando aspettative tra i cittadini che solo l’interdipendenza tra Stati può in realtà garantire. Finiamo per generare aspettative che non vengono poi soddisfatte. Ecco che allora ci ricordiamo dell’interdipendenza, che ci serve per incolpare gli altri per le nostre insoddisfazioni. È il vero segreto del populismo di oggi: si basa sul comodo presupposto che si possano avere tutti i vantaggi del nostro mondo interdipendente, senza doverne negoziare gli aspetti.

I sostenitori del Brexit hanno alimentato questa comoda finzione populistica e al contempo hanno soffiato sul fuoco dell’insicurezza che domina gran parte della società britannica (ed europea). Il Brexit ha vinto perché l’incertezza derivante dallo status quo era persino superiore all’incertezza derivante dalle alternative.
Al contempo, c’è stato un errore della classe dirigente europea, forse un errore storico: pensare che tutti condividano la loro visione del mondo, che tutti siano consapevoli del mondo interdipendente in cui viviamo. Non è così. Molti europei vivono in un mondo globalizzato, ma con una visione del mondo ancora profondamente dominata dal localismo. In questo contesto, è normale che la reazione istintiva alla crescente insicurezza economica, sociale, persino fisica sia quella del ritorno ai confini familiari, dove si presume di poter ricostruire, come d’incanto, tutta la protezione sociale del passato che si è persa.

L’uscita del Regno Unito è un male per l’Unione europea e per il Regno Unito. L’Ue perde in diversità interna e si apre a un pericoloso precedente. Il Regno Unito scoprirà presto che la vera causa dei suoi problemi e delle preoccupazioni dei suoi cittadini non è l’Europa, ma l’incapacità della sua democrazia nazionale ad adattarsi ad un mondo interdipendente. Non sarà un ritorno fuori tempo al nazionalismo e al protezionismo a rispondere alle sfide della globalizzazione.

L’autore è professore al Robert Schuman Centre for Advanced Studies, European University Institute

© Riproduzione riservata