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L’ottusità di un’Europa incapace di reagire

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L’ottusità di un’Europa incapace di reagire

No, così non va bene. Ancora una volta prevale l'Unione europea delle mille voci dissonanti. È la Babele in cui la torre edificata sugli interessi responsabili – di tutti e non di una parte, di lungo respiro e non di cortissimo affanno – e progettata secondo lo spirito comunitario autentico, quello dei Padri Fondatori, rischia di sgretolarsi e di precipitare nel vuoto. La decisione della Commissione di chiedere anche ai Parlamenti nazionali la ratifica del Ceta, l'accordo di libero scambio fra l'Unione europea e il Canada, è un errore gravissimo. Non solo perché rischia di rendere farraginoso e, quindi, di bloccare questo accordo.

Ma soprattutto perché rappresenta il primo gesto politico e simbolico, pesante e gravido di conseguenze, dopo la Brexit. Poteva essere il segnale al mondo che, nonostante lo shock della scelta compiuta dalla Gran Bretagna, l'Unione europea non solo c'è, ma è reattiva, saggia e coesa.Invece, è la conferma della gracilità della consistenza del progetto comunitario, reso fragile e disarticolato dalla prevalenza degli interessi di parte: una condizione di minorità e di cecità su cui tanti seminatori di dubbi hanno insistito negli ultimi anni. La commissaria al commercio Cecilia Malmström ha ammesso che legalmente il Comprehensive economic and trade agreement è di competenza comunitaria. Dunque, nulla avrebbe impedito una chiusura rapida di un accordo tanto strategico con un sì pronunciato dalla voce unica dell'Unione europea. Una chiusura pienamente legittima, in grado di attivare rapidamente i benefici di un trattato basato, per esempio, sulla cancellazione del 99% dei dazi doganali. Sotto il profilo economico, una sua ratifica a livello comunitario sarebbe stata dunque un cambiamento non da poco sulle mappe del commercio internazionale.

Sul versante politico, una ratifica al solo livello comunitario del Ceta avrebbe rappresentato un messaggio importante per gli altri protagonisti dello scacchiere mondiale, che da tempo osservano l’Unione europea come un malato che, su alcuni dossier, è afono e che, su altri dossier, ha mille voci sovrapposte e, dunque, poco comprensibili: tutti quanti – dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all’India – avrebbero saputo che l’Unione europea, assorbito il trauma Brexit, aveva deciso di muoversi con rapidità e determinazione. Invece, si è scelto diversamente, introducendo il meccanismo della procedura mista: a questo punto, anche i parlamenti degli Stati membri dovranno dare il loro assenso. Questa decisione, presa perché alcuni Stati membri – per esempio la Germania – hanno espresso la loro contrarietà a una ratifica solo comunitaria, apre l’ennesima falla nella costruzione della diga di una Unione solida e credibile, veloce nelle scelte e in grado di porsi con autorevolezza nello scenario della nuova globalizzazione, che fra esodi biblici di popolazioni e guerre, innovazioni tecnologiche e nuovi modelli organizzativi del capitalismo sta cambiando il mondo alla velocità della luce.

Di fronte a tutto questo, per un trattato privo di asperità regolatorie e caratterizzato da una netta prevalenza di vantaggi economici, adesso dovrà pronunciarsi ciascuno dei 38 parlamenti dei 28 Stati membri (includendo formalisticamente anche la Gran Bretagna, che deve ancora attivare la procedura di uscita post referendum). Sotto il profilo politico l’adozione di questa procedura è già di per sé un danno grave. Diventerà un errore gravissimo in caso di stop: sarà sufficiente che uno dei parlamenti nazionali ponga il veto perché il trattato si areni. Con conseguenze nefaste, naturalmente, anche di natura economica per l’Europa e per l’Italia. Soltanto il nostro export in Canada ha avuto nel 2015 un valore di 3,7 miliardi di euro, con una crescita cumulata del 32% rispetto al 2007, ultimo anno prima della recessione. In qualche maniera, questo accordo rappresenta un primo tassello del più ampio mosaico del nuovo commercio internazionale che dovrebbe includere il Ttip, il Transatlantic Trade and Investment Partnership, l’accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Unione europea che, se resisterà da un lato dell’Atlantico alle bordate di Donald Trump e ai raffreddamenti di Hillary Clinton e dall’altro lato ai dubbi francesi e alle paure tedesche, cambierà davvero il volto delle cose. Intanto, però, bisogna essere chiari. Tredici giorni fa la Gran Bretagna ha fatto male all’Unione europea. Ieri l’Unione europea, sull’accordo di libero scambio con il Canada, poteva scegliere di rialzarsi e riprendere il cammino. Non lo ha fatto. E, adesso, la strada è tutta in salita. Se si continua così, un pezzo alla volta sotto alle macerie della Torre di Babele rimarrà l’Unione europea, con il suo progetto e il suo – il nostro – sogno.

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