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I nuovi saperi del servizio pubblico

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I nuovi saperi del servizio pubblico

Ho un lontano motivo per ringraziare chi ha pensato a un dibattito sul Servizio pubblico, fino a oggi percepito coma a una sorta di assistenza sociale riguardante le cose pratiche della nostra vita, singola e collettiva, fondate sull’utilità di sapere che tempo fa, se il week-end è agibile, quando vaccinarsi , come votare, viaggiare, mangiare, prender nota delle ore legali e solari, di un’esondazione, un incendio, una frana, una strada bloccata, un treno in panne, e via così, di servizio in servizio. Pubblico, in quanto previsto da una precisa norma statutaria.

Si tratta, in realtà, di giudicare il senso e la qualità di uno strumento che condiziona il sapere e il pensare, il sentire e il capire, lo scegliere o il respingere un mondo dell’informazione che il Nobel dell’economia Amartya Sen ha definito un fenomeno più invasivo e coinvolgente persino della finanza, fino a oggi l’indisturbabile potere non tenuto a interpretare conoscenza, libertà e diritto.

È tempo di volere una politica che si formi sulla società, non una società che si conformi a una politica; e qui basterebbe credere che non c’è mai tanto bisogno di politica come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltare le spalle. Non c’è strumento che non abbia nella nostra vita una così necessaria funzione; seppure rappresenti sempre meno un sistema scientifico e filosofico, ideale e spirituale. E si giudichi democratico il confronto tra diverse opinioni finché la difesa ciascuno della propria non si risolva in una somma di faziosità; non di rado con la paradossale tonalità critica di un format pressoché unanime nel rappresentare il medesimo bersaglio.

Marshall McLuhan ci disse che la velocità dei processi elettronici e la domestication, cioè il loro uso, avrebbe offerto, ora per ora, una fruizione sempre più veloce, fino a configurare una vera e propria rivoluzione secondo la quale, grazie alla civiltà elettronica, saremmo stati i soggetti di un teorema sostanzialmente astratto, cioè i protagonisti e i testimoni, nello stesso tempo del medesimo evento: un’evidente decurtazione dei limiti connaturati al compito di documentare una multiforme, e altrimenti inagibile, complessità civile e culturale in grado di far emergere realtrà tra loro dialettiche. La contraddizione di McLuhan, insomma, non poteva corrispondere al veloce mutare dei saperi, dell’antropologia, della storia; e la politica, l’economia e l’etica al doversi misurare, di volta in volta, con problemi diversi. Ne cito alcuni: la fenditura che oggi divide morale e moralismo; il sostenere o il negare che l’opinione pubblica possa sostituirsi alla responsabilità individuale nell’esprimersi su valori singoli e comuni; la contraddizione di chi giudica e gestisce le ragioni, insieme, della finanza generale e dell’economia domestica; l’attenzione alla difesa della legalità e dei suoi principi affermando, ciascuno, una giurisdizione personale, e procedendo secondo criteri dettati, per esempio, dai praticismi più popolari e, oggettivamente, più corrivi: l’appartenenza prima dell’identità, i partiti prima della politica, il sesso prima dell’amore, la religione prima della fede; e il dolore - persino quello inutile, che diventa spettacolo - sacrificandone il senso, il coraggio, la dignità. Si tratta di interpretare, riunire e approfondire - è un percorso che la più agile e duttile struttura radiofonica sta già affrontando - una lettura del reale che corrisponda non a una agenzia del sentire comune, ma a dimensioni e linguaggi corrispondenti alle idee, ai valori e ai sentimenti, e alle debolezze della famiglia e della scuola, della politica; tanto da giustificare una contemporaneità eticamente sempre più fragile. In un tempo che sta vivendo una veloce evoluzione, il servizio pubblico radiotelevisivo, lungi dall’indulgere ai lasciti ideologici, è incline a darsi la visione calma e laboriosa di cui Benedetto Croce si diceva debitore, nientemeno, alla sua biblioteca. «Tu sei quello che sai», amava dire, credo ai suoi amici.

Un cambiamento di questa natura implica non solo la qualità di ciò che, è proprio il caso, si trasmette, ma anche l’aggiornamento di quanto si è già in obbligo di sapere: tendente cioè a un umanesimo che s’intenda con la scienza, e viceversa, due culture con lo spirito e l’immaginazione non trasformati in compendi, ma nelle verifiche del generale problema dell’esistenza; quindi in grado di mediare i valori naturali dell’umanità e lo scorrere di progetti nel nome, soprattutto, di quella più attardata, sofferente, spesso non vista e non amata abbastanza. Un altro esempio: «Se i giovani si raffreddassero, tutta l’umanità si metterebbe a battere i denti» aveva detto Georges Bernanos. I giovani, a modo loro, queste parole le vissero al tempo della «grande rabbia». Non furono ascoltati e un inguaribile qualunquismo si compiacque di una sconfitta che li avrebbe distolti dalla “politica” per ricondurli, finalmente, ai loro “doveri”; ma disciplina morale e misura mentale non sono qualità particolarmente giovanili. E tuttavia non è privo di senso, e di speranze, il recente evento elettorale che ha segnalato una risvegliata voglia dei giovani di non essere più una parte quasi irrilevante della società.

Sono passati decenni da quando si chiese una televisione non elitaria né distributrice di culture prefabbricate, ma lo strumento per dar vita a una nuova educazione della cittadinanza, cioè un’attitudine che non sia solo informare, ma comunicare, con un implicito dialogo in cui si fanno domande e attendono risposte: tra l’altro chiedendosi chi nel rapporto d’oggi con la famiglia, la scuola, la politica, il lavoro, lo spirito, sia pronto a ricevere, dalla Tv e dalla radio del servizio pubblico, reali e specifiche crescite. Primum informare, diceva Luigi Einaudi, ma deinde anzi subito, comunicare, cioè parlarsi, in una realtà nella quale un bisogno di capire resta il perché non solo delle buche, ma delle voragini.

La Rai - che ha preso a vivere una sorta di neorealtà non solo aziendale, e dispone di corpi professionali di prim’ordine, sta perseguendo l’incontro con una politica che aveva più volte promesso di compiere il famoso “passo indietro”, un proposito mai rispettato anche perché, mai, istituzionalmente convenuto. Tra le più reputate del mondo, la Tv del servizio pubblico ha i titoli per reclamare, e ottenere, un’indipendenza non fittizia né strumentale, senza privilegi e sudditanze. Almeno tre antenne, la 23, la 48 e la 54, mi scuso per citare una scelta parziale e personale, hanno già inaugurato chiari ed efficaci percorsi del cambiamento. La grandi reti stanno dal canto loro inaugurando assetti e palinsesti, autori e protagonisti.

Oggi, l’abusato McLuhan, che non è sempre stato un gran pulpito, potrebbe trovare nella Rai un importante snodo innovativo. La sua fiducia in una fruizione non teorica né suggestiva del suo teorema poteva avere, allora, un invogliante fondamento; mentre la domesticità, con la sua dimensione, indicava un aspetto del servizio pubblico che supera, per dir così, l’informazione aggiungendole il valore di ciò che rende quotidiano, e universale, il suo significato, cioè la reale funzione di una doverosità sociale. La conclusione di questo sommario intervento mi rimanda al ritrovato, e qui davvero esemplare, McLuhan. Fu quando, nel circolo della stampa di New York - grazie a Furio Colombo, allora direttore negli Stati Uniti dell’Istituto italiano di cultura - conobbi Walter Cronkite, il più famoso giornalista americano di quegli anni. Era il quotidiano analista dell’inesorabile tragedia vietnamita. Seppi che aveva appena chiuso il telegiornale con queste parole: «Ed è trascorso, anche oggi, un altro giorno della nostra guerra in Vietnam». Quella voce rivelava ciò che può essere lo spirito di una professione che esercita la sua responsabile libertà, e dà voce a un comune diritto.

Quella frase venne ripetuta ogni sera, finché la guerra cessò. L’America aveva percepito lo spirito di una scelta primum professionale, deinde politica. Si chiamava anche là, Servizio pubblico.

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