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I colpi di coda del federalismo pasticciato

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L'Editoriale|Editoriali

I colpi di coda del federalismo pasticciato

Quest'anno gli enti territoriali non potranno istituire tributi propri, come ad esempio una nuova imposta di soggiorno, un'addizionale comunale all'Irpef o una maggiorazione regionale sulle accise di benzina e gas metano. Peraltro, la legge di Stabilità del 2016, scongiurando l'introduzione di nuove tasse, ha osato anche di più: ha persino negato agli amministratori locali – come già era accaduto anni prima, sia nel 2002 sia nel 2008 – la possibilità di aumentare aliquote e tariffe dei tributi propri già in vigore (con la sola eccezione della Tari, la tassa per la raccolta dei rifiuti). La scelta di congelare la fiscalità locale, che è stata voluta dal governo, trova fondamento in una pluralità di ragioni. In primo luogo, in questo modo si evita alla radice il rischio che dopo la soppressione della Tasi sulla prima casa, gli amministratori locali possano cedere alla tentazione di “compensare” minori incassi per circa 4 miliardi (che comunque lo Stato rimborserà integralmente ai Comuni) con aumenti di altre voci di prelievo. Più in generale, questa scelta risponde forse all'esigenza di frenare una tendenza ampiamente visibile. Cioè il fatto che, negli ultimi anni, le aliquote dei principali tributi di Regioni, Comuni e Province abbiano puntualmente fatto segnare piccoli ma costanti ritocchi all'insù. Qualche esempio? L'aliquota media dell'Irap applicata nelle Regioni è passata dal 4,28% del 2014 al 4,31% del 2015 (in questo caso, ai contribuenti è però andata bene perché, grazie ai primi effetti dell'esclusione dalla base imponibile del costo del lavoro, il prelievo effettivo si è ridotto di circa 1,5 miliardi).

Correzioni analoghe si vedono anche negli altri tributi propri degli enti territoriali: l’aliquota dell’addizionale regionale Irpef è salita nel 2015 all’1,61%, contro l’1,58% medio
dell’anno precedente; quella comunale è cresciuta nello stesso periodo di un centesimo di punto, arrivando allo 0,49%, senza dire di Imu e Tasi pure ampiamente interessate a questa stessa dinamica “rialzista”.

Non deve sorprendere, nonostante l’ulteriore inasprimento delle aliquote dei principali tributi locali, che lo scorso anno le entrate tributarie complessive degli enti territoriali siano leggermente diminuite (-2,1%, secondo la Banca d’Italia). A pesare, infatti, è stata soprattutto l’accennata riduzione del gettito Irap, sceso del 6% a poco più di 19,5 miliardi di euro per il solo settore privato. Quindi, il fisco locale nel 2015 ha fatto sì un piccolo passo indietro e un altro – altrettanto piccolo – lo farà quest’anno per effetto del venir meno della Tasi sulla prima abitazione e delle altre rimodulazioni del prelievo immobiliare su macchinari imbullonati e sui terreni agricoli, oltre che per i vantaggi a regime della riduzione dell’Irap. Ma non si può ignorare, come proprio la Banca d’Italia ha sottolineato nella sua ultima relazione annuale, che tasse, tributi e imposte degli enti territoriali rappresentino pur sempre il 6,4% del prodotto interno lordo: qualcosa come quasi 110 miliardi di euro all’anno, tanto per avere una misura.

Come spesso accade, è però importante guardare anche alle dinamiche delle singole Regioni. È vero che nel 2015 è proseguita la flessione delle entrate correnti aggregate (-1,1% sul 2014), ma con eccezioni non sottovalutabili, visto che in territori come la Lombardia si è registrata una crescita di questa voce del 2,2% dopo un biennio di flessione. Con un ulteriore elemento significativo. E cioè che in alcune aree l’aumento dei tributi propri non si è mai fermato. Valga ancora il caso della Lombardia, ovviamente emblematico perché si tratta di una delle Regioni che “pesa di più”: la somma dei tributi propri degli enti territoriali lombardi è cresciuta anche quando le entrate correnti aggregate a livello regionale avevano ingranato la retromarcia, con un “leggero” incremento nel 2015 (+0,4%) e più consistente (+3,2%) nel triennio 2012-2014.

Insomma, l’andamento delle entrate proprie degli enti territoriali non pare proprio volersi rassegnare al tramonto del federalismo. O, a voler essere più cattivi, allo Stato centrale, che di devolution non vuol più neppure sentire parlare, ma al quale continua a fare comodo che sia qualcun altro – di volta in volta il sindaco, il governatore o il presidente di Provincia ancora incerto sul suo destino – a fare il lavoro sporco di chiedere sempre più quattrini a cittadini e imprese. Per il 2016, il governo ha messo una pezza, ma vedremo a breve che cosa succederà il prossimo anno, quando si esaurirà il periodo di moratoria sia sugli aumenti di aliquota sia sulla possibilità di introdurre nuovi tributi. E quando, pensando ai Comuni, il governo dovrà comunque decidere come superare un sistema - nato all’insegna della provvisorietà - che pone 4 miliardi di euro a carico della fiscalità generale per il finanziamento di una parte delle attività dei sindaci. Un’ulteriore conferma della rilevanza dei problemi che ci attendono. E di come il tema della fiscalità locale non si sia ancora ripreso dal “colpo” ricevuto dalla commistione tra livello di prelievo statale e locale arrivata proprio con l’introduzione dell’Imu, che ancora oggi va un po’ allo Stato e un po’ ai Comuni.

Passando poi dal generale al particolare, la fotografia scattata dalla Banca d’Italia sul prelievo locale riferito a una famiglia tipo offre certamente una rappresentazione parziale, che ha però il pregio di calare i numeri astratti del prelievo locale pro-capite (dove confluiscono voci e quote di imposte che non riguardano la famiglia) in una dimensione comprensibile e confrontabile. Una sorta di “total tax rate” del prelievo di Regioni, Province e Comuni sulle famiglie – per certi aspetti simile al total tax rate sulle imprese, calcolato dalla Banca mondiale per esprimere il peso effettivo di tasse e contributi su una media azienda – che restituisce un’idea realistica di quanto incidano le pretese degli enti impositori.

Numeri magari non facili da decifrare, che però rafforzano la “solita” sensazione di una dinamica del fisco territoriale spesso sganciata da qualsiasi logica che possa avvicinare la tassazione alla quantità (e anche alla qualità) dei servizi offerti ai cittadini e agli operatori economici. Al contrario, sembra di cogliere ancora una volta una tendenza impropria all’uso dei tributi, buoni solo per coprire quelle falle che via via si aprono nei bilanci degli enti, sia a causa dei vincoli imposti dallo Stato centrale sia per l’incapacità degli amministratori di spendere bene le proprie risorse e trovando più comodo il vecchio metodo del “ritocchino all’insù” di aliquote e percentuali. Gli ultimi colpi di coda (si spera) di un federalismo pasticciato che in eredità ci lascia solo una pesante lievitazione del prelievo locale.

Questo è il nesso che va ricostruito. Le tasse, vale per quelle statali ma forse a maggior ragione per quelle locali, non devono essere necessariamente belle. Ma è fondamentale che siano almeno giuste e utili. Nessuno, forse, sarà contento di pagarle, eppure se grazie a questa forma di “partecipazione obbligatoria” i cittadini avranno servizi più moderni ed efficienti, infrastrutture in grado di sostenere la crescita e lo sviluppo dei territori, un’attenzione vera alla qualità della vita e anche alla tutela delle fasce più deboli, se non si vedranno solo sprechi e ruberie, come troppo spesso accade ora, allora le tasse diventeranno almeno comprensibili. E, forse, per molti cittadini, persino “belle”.

Questa non è l’unica sfida per il futuro. Ne attendiamo un’altra che deriva dalla riforma costituzionale, oggetto del referendum confermativo (vedremo se a ottobre o un po’ più avanti). Una riforma che, come ha ricordato Franco Gallo proprio su questo giornale («Il tramonto del federalismo», sul Sole 24 Ore del Lunedì del 27 giugno) avrà anche l’effetto di ridurre fortemente l’autonomia tributaria degli enti territoriali. Un passaggio che, se al referendum prevarranno i sì, imporrà di ripensare in modo profondo un’autonomia tributaria che altrimenti sarà sempre più dipendente dalle scelte dello Stato centrale.

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