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Francesco ad Auschwitz come Wojtyla e Ratzinger

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VERSO LA GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTù

Francesco ad Auschwitz come Wojtyla e Ratzinger

Attraverserà l’ingresso sotto la scritta “Arbeit macht frei” la mattina di venerdì 29 luglio. Sarà il terzo pontefice della Chiesa cattolica a varcare quel cancello che ha segnato il buio infinito del Novecento, e che la Memoria assegna per sempre alla storia. Francesco ad Auschwitz, tappa fondamentale nel suo prossimo viaggio a Cracovia, per la Giornata mondiale dei Giovani, nella patria del suo santo predecessore, cuore cattolico dell’Europa orientale e fucina di una gerarchia ecclesiale che ancora deve entrare in sintonia con il vento nuovo portato da Bergoglio dalle lontane terre latino americane.

Un viaggio dal programma intenso che ha nella tappa ad Auschwitz e Birkenau forse il suo momento di maggiore intensità planetaria. Francesco, a differenza dei suoi predecessori, non pronuncerà discorsi in quei luoghi (così al momento è il programma): pregherà in silenzio, come ha fatto al Memoriale del Genocidio armeno a Yerevan in giugno. «Vorrei andare in quel posto di orrore senza discorsi, senza salutare: solo pregare e che il Signore mi dia la grazia di piangere», ha detto nel volo di ritorno dall’Armenia. Nel 2014, nella visita al Memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme, Bergoglio si inchinò a baciare le mani a sei sopravvissuti ai campi di sterminio, e a loro è stato destinato il suo saluto più fraterno a caloroso nella visita alla Tempio Maggiore di Roma, lo scorso gennaio.

«Auschwitz grida il dolore di una sofferenza immane e invoca un futuro di rispetto, pace ed incontro tra popoli», scrisse il Papa un anno fa per i 70 anni della liberazione del lager. E nelle sue parole si risentono gli echi dei discorsi dei suoi due predecessori, un polacco e un tedesco, due pontefici che sulle loro spalle hanno portato un diverso fardello di quella storia tragica.

Giovanni Paolo II entrò a Auschwitz il 7 giugno 1979: era il suo secondo viaggio fuori dall’Italia, nel suo paese ben stretto nel controllo del regime, fu accolto da folle oceaniche, tanto che secondo gli storici fu quella la spinta di “popolo” che diede avvio al processo che poi porterà a Solidarnosc.

«Vengo qui oggi come pellegrino», disse il papa polacco che molte volte era stato dentro quel campo e aveva pregato nella cella di morte di padre Massimiliano Kolbe, da lui proclamato santo tre anni dopo, nel 1982. Una visita che lascerà una traccia profonda, nel cui solco tornerà molti anni dopo nel 2006, Joseph Ratzinger, il papa tedesco, che da figlio di quel popolo dirà: «Non potevo non venire qui, dovevo venire». Ma il discorso da lui pronunciato – in italiano, e con la parola Shoah aggiunta all’ultimo momento in due passaggi – avrà valore di pietra miliare teologica: «Quante domande si impongono in questo luogo. Sempre di nuovo emerge la domanda: Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?». E ancora, in un altro punto, il Papa disse,che gli autori dello sterminio – «i potentati del Terzo Reich», passaggio che da alcuni ambienti ebraici fu criticato perché forse teso a circoscrivere le responsabilità in un ambito ristretto - «intendevano uccidere Dio». Una visita che lo portò davanti alla lapide in ricordo di Edith Stein, la filosofa nata ebrea e diventata monaca carmelitana: un gesto di gratitudine e omaggio, quello di Ratzinger, non solo per una figura gigantesca come la Stein, ma anche verso quei tedeschi deportati, visti dai nazisti come “Abschaum der Nation”, rifiuti della nazione. Alla fine un accenno al vicino piccolo carmelo, che negli anni 80 generò una crisi tra gerarchie cattoliche e quelle ebraiche: la costruzione fu del 1984, la Chiesa ordinò alle monache di allontanarsi nel 1989, cosa che avverrà solo nel 1993. Oggi in quel punto c’è una croce di quasi 9 metri, la stessa che fu costruita quando venne Giovanni Paolo II.

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