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Il rigetto della globalizzazione

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Editoriali

Il rigetto della globalizzazione

Nelle società occidentali la globalizzazione soffre di sindrome di rigetto della quale Brexit è solo il sintomo più recente, tale però da indurre qualcuno a recitare un affrettato «De profundis» per l’integrazione economica mondiale che abbiamo vissuto nell’ultimo trentennio. Sulla fine della globalizzazione, alcuni politici scommettono la propria carriera.

Non è la prima volta che ciò accade. Sappiamo tutti che l’apertura dei mercati di beni, servizi, capitale e lavoro accresce il reddito mondiale ma ne modifica la distribuzione sia tra i paesi sia tra le persone, ma abbiamo ripetuto l’errore di sottovalutarne gli effetti sociali e geopolitici. La “prima globalizzazione” della seconda metà dell’Ottocento fu contestata nelle piazze e nei parlamenti ben prima della sua violenta fine nel 1914. Negli Stati Uniti, la pressione dell’immigrazione comprimeva i salari dei lavoratori meno qualificati, moltiplicando le campagne di stampa e le manifestazioni contro l’arrivo di tanti concorrenti sul mercato del lavoro. Il tono ideologico e culturale del nativismo xenofobo anti cattolico prese di mira dapprima irlandesi e tedeschi, poi gli italiani, con toni violenti e razzisti. Le vignette anti papiste che si sprecavano sui giornali hanno poco da invidiare a quelle di Charlie Hebdo. La risposta politica, dapprima dai singoli stati poi dal governo federale, introdusse progressive restrizioni all’immigrazione, quali ispezioni sanitarie e test di alfabetizzazione, sino agli Immigration Acts degli anni 1920. In Italia, emigrazione e importazione di grano a buon mercato migliorarono la distribuzione del reddito a favore del lavoro meno qualificate, riducendo le rendite agrarie. La stampa enfatizzò il pericolo di una “crisi agraria” della quale gli studiosi odierni trovano modeste tracce. La reazione contro la globalizzazione prese, in gran parte d’Europa, la forma dei dazi di importazione, anzitutto sui cereali, votate Parlamenti nei quali il suffragio limitato concentrava il potere nelle mani dei “perdenti” della globalizzazione, anzitutto i grandi proprietari terrieri.

Le cause della disuguaglianza negli ultimi trent’anni sono in parte analoghe a quelle di fine Ottocento (globalizzazione), in parte diverse, dovute alla tecnologia specifica del nostro tempo. La tecnologia della prima globalizzazione, elettrificazione e fordismo, spostava grandi masse di lavoratori dall’agricoltura all’industria, non senza tensioni sociali ma con effetti salariali e distributivi favorevoli alla classe lavoratrice. Oggi i benefici della tecnologia digitale si concentrano soprattutto sulla fascia di popolazione più istruita e innovativa. Il quadro tecnologico della prima globalizzazione tendeva a includere, quello della nostra a dividere. Le cause della disuguaglianza sono più complesse oggi di quanto non fossero a fine Ottocento.

La reazione alla globalizzazione è stata catalizzata dalla Grande Recessione: è forte soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, le aree colpite dalla crisi, assai meno in Asia. La soluzione, apparentemente semplice, proposta da molti, consiste nel porre un freno all’integrazione dei mercati. Summers, autorevole economista, ex segretario del Tesoro statunitense, invoca un “nazionalismo responsabile”. Trova echi in Europa in ambienti non sospettabili di populismo autarchico, proprio con l’obiettivo di neutralizzarlo. E’ una scelta desiderabile? La reazione estrema degli anni Trenta contro l’integrazione dei mercati internazionali produsse autarchia, bassa crescita, disoccupazione. Alla fine una frammentazione del mondo della quale l’economia fu la vittima meno importante. L’Europa unita nasce sulle rovine di quel mondo. E’ una lezione tragica da non dimenticare. Oltre che indesiderabile per gli effetti incontrollabili che metterebbe in moto, il neo-nazionalismo, più o meno responsabile, sarebbe di dubbia efficacia nel restituire fiducia e consenso alle élites che li hanno in buona misura perduti. Le grandi questioni del momento – sicurezza, migrazioni, clima, effetti sociali della tecnologia, invecchiamento della popolazione – hanno solo soluzioni cooperative, possibilmente sovranazionali. Rinunciare a un’economia tendenzialmente aperta non migliorerebbe la possibilità di gestirle, al contrario. Gli inevitabili fallimenti non accrescerebbero il prestigio delle élites nazionali. Inoltre, come sembra indicare il referendum britannico, la globalizzazione ha molti nemici ma anche molti amici. Un ritorno al nazionalismo accontenterebbe i primi alienando i secondi. Il risultato in termini di consenso sarebbe nullo o modesto.

Siamo pertanto “condannati” alla globalizzazione e, dunque, a gestirla in modo più attivo e responsabile di quanto abbiamo fatto sinora. Parte della ricchezza generata dall’integrazione economica va utilizzata per compensare i “perdenti”, riducendo le sperequazioni di reddito e ricchezza, creando un welfare adatto al ventunesimo secolo. Quanto alla disuguaglianza prodotta dalla tecnologia, la strada maestra per combatterla sta nel realizzare più diffusi e migliori livelli di istruzione. Sono soluzioni che richiedono tempo, ma non hanno alternative positive e durature.

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