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Erdogan più forte, la Turchia più debole

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Erdogan più forte, la Turchia più debole

Dove va la Turchia? Guerra dentro e guerra fuori, tutto il contrario dello slogan ereditato da Ataturk, il fondatore della Turchia moderna: questa è in sintesi la situazione che sta vivendo un Paese chiave per la stabilità internazionale. Dalla drammatica prova del golpe fallito emerge un Erdogan più forte all’interno, ma forse una Turchia più vulnerabile e paradossalmente più isolata sul piano internazionale, soprattutto se non si chiariranno i rapporti ambigui con gli Stati Uniti, la Nato e la stessa Unione europea.
Non basta la ripresa delle relazioni con Israele e Putin: la Russia non è più come prima soltanto un partner economico e del gas ma una superpotenza con cui la Turchia confina nella Siria di Assad, alle porte di casa, in un’area come quella curda ultrasensibile per la sua stessa definizione di stato unitario.

Quella che si gioca sulla frontiera siriana per la Turchia ma anche per l’Occidente è un partita vitale e assai pericolosa: i turchi non hanno avuto nessuna garanzia, né dagli Usa né dalla Russia, che non si formi uno stato curdo, possibile magnete dell’irredentismo dei “suoi” curdi dell’Anatolia del Sud Est, teatro della guerriglia del Pkk.
Questo è il vero incubo strategico della Turchia: è possibile che il fallito golpe sia stato animato da un’ala delle forze armate - coinvolte quotidianamente fino all’eccesso contro la guerriglia e il terrorismo del Pkk - che non vedeva più in Erdogan il garante dell’integrità delle nazione ma un giocatore d’azzardo che nel conflitto siriano, dove ha sostenuto i jihadisti, rischiava di perdere più di tutti.

Le responsabilità non sono solo di Erdogan, e da qui provengono le ambiguità nei rapporti con il leader turco. L’errore di calcolo che Assad potesse essere abbattuto in pochi mesi nel 2011 è stato condiviso dall’Occidente, dagli Stati Uniti e dai loro alleati arabi del Golfo che hanno incoraggiato Ankara ad aprire la famigerata “autostrada della Jihad”. È così, dopo la fine dell’Iraq di Saddam nel 2003, si è scoperchiato un altro vaso di Pandora che con l’Isis sta propagando il terrorismo in tutto il Medio Oriente, in Turchia e in Europa. Fare la guerra al Califfato significa per Erdogan, gli Usa e l’Europa prendere atto di un errore micidiale. Non solo: come dimostra il viaggio del segretario di stato John Kerry a Mosca, la Russia si è accaparrata un ruolo fondamentale nel cuore del Medio Oriente. Come avamposto storico della Nato la Turchia si sente a disagio, non compresa dai suoi partner tradizionali e costretta a venire a patti con un avversario come la Russia.

La collocazione della Turchia come “ponte” tra Est e Ovest è ancora valida ma forse appartiene anche al passato. La Turchia di Erdogan ha voluto rivestire un ruolo non di sponda dell'Occidente ma da protagonista nelle primavere arabe e nella disgregazione mediorientale, una partita complicata ma probabilmente ineludibile quando si pongono obiettivi ambiziosi come diventare un Paese guida del mondo musulmano. Era questo il traguardo che si proponeva Erdogan alleandosi con i Fratelli Musulmani in Egitto, fatti fuori nel 2013 dal colpo di stato del generale Al Sisi.
E anche qui l’Occidente ha incoraggiato Erdogan: non era forse diventata la Turchia, nella retorica della politica internazionale, il modello di democrazia all'islamica da esportare? Non è sfuggito al leader turco ma anche ai molti protagonisti della regione che quando è venuto il momento di decidere al Cairo si è preferito scegliere la draconiana stabilità offerta dai generali piuttosto che i movimenti islamici.

Ecco come nasce un golpe. Questo tentativo di colpo di Stato viene dalle considerazione fatte nelle alte sfere delle Forze armate che hanno a loro volta incoraggiato i giovani militari a prendere le armi contro il governo dell’Akp e il presidente Erdogan che sono al potere dal 2012. Erdogan, ovviamente, ci ha messo del suo. Ha accentuato le sue tendenze autoritarie soffocando la stampa e il dissenso, punta a instaurare una repubblica presidenziale e questa volta potrebbe farcela: la strada l’hanno spianata gli stessi golpisti. Ma è una buona cosa che un Paese così importante affronti un cambiamento costituzionale decisivo con il peso di un golpe e di centinaia di morti? Evidentemente no.
La Turchia è un Paese con un apparato industriale sofisticato, nel gruppo delle prime venti economie mondiali, intrattiene con l’Unione il 50% del suo interscambio commerciale. Ed è diventata una sorta di hub internazionale per le vie del petrolio e del gas che ne fanno una pedina importante per diversificare le forniture energetiche europee. Senza una collaborazione stretta con la Turchia non ci sono prospettive di sviluppo per il Medio Oriente e una parte del Mediterraneo, ma non ci sono neppure i presupposti per un dare sicurezza e stabilità: ma l’Europa ha chiesto alla Turchia di fare una politica di pura convenienza, come dimostra l’accordo sui migranti.

Ci si può lamentare di un golpe in un Paese che l’Unione, quella della Germania e della Francia, ha sistematicamente tenuto in sala d’aspetto per poi richiamarla al suo dovere di Paese ponte tra Est e Ovest soltanto quando faceva comodo? Le risposte già le conosciamo. Archiviato il filo-atlantismo ereditato dalla guerra fredda, oggi Erdogan non dà niente per niente, neppure agli americani che per questo sono assai nervosi.
Erdogan in questo momento ha in mano la situazione. Trascina i supporter ad acclamarlo in piazza e passa con la falce per tagliare le gambe non solo ai golpisti, ai gulenisti, ai giudici, agli oppositori. È l’ora delle purghe, delle vendette: prima finisce e meglio è per la Turchia ma anche per noi. Come hanno dimostrato tragici esempi nel mondo arabo e nei Balcani sui regolamenti dei conti le nazioni non si costruiscono ma si distruggono: è solo questione di tempo.

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