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Solo l’Unione può fare la crescita

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Editoriali

Solo l’Unione può fare la crescita

Almeno una cosa è certa degli effetti del referendum britannico: Brexit sta già aumentando i rischi in Europa. Purtroppo, un aumento dei rischi significa automaticamente anche una minore disponibilità alla condivisione di tali rischi tra i paesi dell’euro. Si rompe cioè l’equilibrio tra le due strategie che avevamo cercato di perseguire insieme nel governo dell’euro: la riduzione dei rischi a livello nazionale e la loro condivisione a livello europeo. Un Paese come l’Italia dovrebbe pensare strategicamente a ricostruire questo equilibrio per ottenere nuove forme di condivisione dei rischi, siano essi bancari, sovrani o macroeconomici, di cui ha vitale bisogno.

L’Italia deve preoccuparsi perché non solo i rischi aumentano, ma lo fanno in modo squilibrato tra i diversi paesi. Purtroppo ognuno dei tre shock prodotti da Brexit finisce per accanirsi proprio sull’Italia.

Il primo shock è stato di natura finanziaria, con i mercati colpiti dall’esito del referendum e pronti a identificare nel settore bancario italiano uno degli anelli meno saldi dell’economia europea. Il secondo shock sarà di natura macroeconomica e, come ha segnalato il Fondo monetario, nell’area-euro creerà più problemi a Paesi che hanno economie deboli e poco spazio per contromisure fiscali. Il terzo shock è di natura politica, perché Brexit dimostra che politici xenofobi o anti-europei possono arrivare facilmente al governo del loro paese. Anche in questo caso l’Italia, uno dei paesi storicamente instabili, è esposta a sviluppi politici incerti.

Proprio Brexit dimostra quindi che i problemi infieriscono sull’anello debole della catena europea. Quindi, la questione della condivisione dei rischi non può essere accantonata a quando la situazione sarà meno instabile e incerta, proprio perché non ci sarà una stabilizzazione automatica. Per quanta fiducia si abbia nelle regole dell’economia neoclassica, in un’unione monetaria incompleta non c’è un ritorno a condizioni di equilibrio in assenza di meccanismi di stabilizzazione che invece esistono nelle federazioni compiute.

Paragonando gli Stati Uniti con l’euro-area si vede per esempio che shock che colpiscono maggiormente alcuni Stati, i cosiddetti shock idiosincratici, vengono assorbiti grazie agli altri Stati anche solo per il fatto che esiste un mercato finanziario comune non segmentato e un’altrettanto comune assicurazione dei depositi. Secondo un interessante studio della DG Ecfin presso la Commissione Ue, in Europa la redistribuzione dei rischi tra gli Stati è pari a solo un terzo di quella americana. In pratica, nell’euro-area uno Stato colpito da uno shock avverso tende a divergere sempre più dagli altri, mentre negli Usa riesce a convergere mantenendo stabile l’intera unione di Stati.

Per avere una redistribuzione dei rischi all’americana, sarebbe necessario completare l’unione bancaria e realizzare l’unione dei mercati dei capitali. Si tratta di forme di “condivisione privata dei rischi” che dovrebbero evitare la “condivisione fiscale dei rischi”, cioè che i contribuenti di un Paese si ritrovino a pagare per le sventure o gli errori degli altri governi. Quest’ultima forma di redistribuzione attraverso il denaro pubblico è diventata il simbolo di tutto ciò che non è politicamente accettabile per i paesi più solidi, i cui cittadini si ribellerebbero al trasferimento incontrollato delle proprie tasse all’estero. Eppure nemmeno le condivisioni private dei rischi in questo momento sono popolari presso i partner europei, come si vede dalla decisione di Berlino di opporsi a un sistema di assicurazione comune dei depositi.

Lo squilibrio che si è creato tra condivisione europea dei rischi e riduzione nazionale dei rischi, con tutto l’accento sulla seconda strategia, pone il governo italiano in una condizione difficile. Per ottenere una condivisione dei rischi, l’Italia dovrebbe prima di tutto ridurre i propri. Ma nemmeno questa è una cosa facile. Nel caso delle banche è stato difficile chiedere di ridurre la rischiosità del sistema bancario nazionale con denaro pubblico proprio perché avrebbe significato un aumento dei rischi del debito pubblico. A sua volta, il tentativo di ridurre il debito pubblico stimolando la crescita non sta riuscendo anche perché il paese resta più esposto degli altri ai rischi: il famoso cane che si morde la famosa coda. Non c’è modo di girarci attorno, comunque la si veda la questione della solidarietà europea, l’Italia deve affrontare da sé la stabilizzazione del proprio debito prima che sia troppo tardi e negoziare che ciò sia la premessa per una successiva condivisione dei rischi a livello europeo.

Un recente documento pubblicato da SEP-Luiss propone di affrontare razionalmente il tema del debito italiano prima che i rischi politici dell’area-euro tornino ad aumentare con il referendum italiano e i voti francese e tedesco del prossimo anno. I proponenti chiedono un patto parlamentare tra tutti i partiti che possa dare per esempio un mandato comune alla revisione della spesa pubblica, o alle scelte fiscali a favore degli incrementi di produttività, o al peso degli investimenti nel complesso della spesa. Chi è al governo dovrebbe cedere un po’ delle sue prerogative e chi è all’opposizione dovrebbe costringersi a collaborare. Può essere indigesto, ma l’alternativa resta quella che abbiamo visto nei momenti più cupi della crisi in particolare in Grecia. Un “compromesso storico” limitato alla stabilità fiscale metterebbe l’Italia in grado di ottenere solidarietà dai partner. Ma i tempi per farlo devono essere brevi.

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