Commenti

Il veleno protezionista nutre la cattiva politica

  • Abbonati
  • Accedi
Global view

Il veleno protezionista nutre la cattiva politica

Su una cosa si hanno delle certezze in merito alle imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti: il futuro Presidente non sarà un liberoscambista impegnato. La probabile candidata democratica, Hillary Clinton, è nella migliore delle ipotesi, una indifferente sostenitrice del libero commercio e del Ttip in particolare. La sua controparte repubblicana, Donald Trump, è ostile agli accordi commerciali che renderebbero più aperti i mercati statunitensi. Andando contro la tradizione repubblicana moderna, Trump ha l’obiettivo di imporre un dazio del 35% su auto e parti importate dagli stabilimenti Ford in Messico e del 45% sulle importazioni dalla Cina.

Gli economisti sono quasi del tutti unanimi nell’affermare che gli effetti macroeconomici del piano di Trump sarebbero disastrosi. Il rifiuto del commercio libero e aperto demolirebbe la fiducia e daneggerebbe gli investimenti. Altri Paesi si vendicherebbero imponendo essi stessi delle tariffe, indebolendo le esportazioni statunitensi. Le conseguenze sarebbero simili a quelle della legge Smoot-Hawley, introdotta dal Congresso nel 1930 e firmata da un precedente Presidente repubblicano, Herbert Hoover – una misura che ha portato all’esasperazione della Grande Depressione.

Ma solo perché gli economisti sono d’accordo non significa che abbiano ragione. Quando l’economia si trova in una trappola di liquidità – la domanda è carente, i prezzi sono stagnanti o in calo e i tassi di interesse sono vicini allo zero – la logica macroeconomica normale perde di importanza.

Si consideri il seguente esperimento mentale. Il Presidente Trump firma un disegno di legge che colpisce una tariffa doganale sulle importazioni dalla Cina. Ciò sposta la spesa degli Stati Uniti verso i beni prodotti dalle imprese nazionali e pone pressioni al rialzo sui prezzi degli Stati Uniti, che si rivela utile quando vi è un rischio di deflazione.

Ma il presidente cinese Xi Jinping risponde con una tariffa doganale, che sposta la domanda dalle merci statunitensi. Dal punto di vista dei consumatori americani, l’unico effetto è che le importazioni dalla Cina e i loro sostituti prodotti dagli Usa sono entrambi più costosi di prima.

In circostanze normali, ciò sarebbe un risultato indesiderato. Ma quando la deflazione incombe, la pressione al rialzo sui prezzi è proprio quello che il medico ha ordinato. L’aumento dei prezzi incoraggia le imprese a incrementare la produzione e le famiglie ad aumentare la spesa. Esso riduce anche il peso dei debiti. E poiché l’inflazione è ancora bassa, a causa di condizioni macroeconomiche depresse, non vi è alcuna necessità che la Fed alzi i tassi di interesse e compensi eventuali effetti inflazionistici dell’aumento di spesa.

Per evitare che questo esperimento mentale sia frainteso, voglio essere chiaro: ci sono modi migliori per aumentare i prezzi e stimolare l’attività economica in condizioni di trappola di liquidità, come tagli fiscali e aumenti della spesa pubblica.

Eppure, il punto sulle tariffe è importante. Dal momento che la protezione attraverso i dazi doganali non è un problema macroeconomico in condizioni di deflazione e di trappola di liquidità, un commercio più libero non è una soluzione. Coloro che cercano una cura per il malessere attuale di “stagnazione secolare” – una crescita lenta e un’inflazione inferiore al 2% – non dovrebbero lamentarsi troppo per gli effetti macroeconomici positivi degli accordi commerciali. E non dovrebbero invocare il vecchio detto che la Smoot-Hawley ha causato la Grande Depressione, perché non è così. False affermazioni, anche quando rese alla ricerca di una buona causa, non fanno bene a nessuno.

Ma la Smoot-Hawley ha avuto una serie di altre conseguenze dannose. In primo luogo, ha interrotto il funzionamento del sistema finanziario internazionale. I Paesi che prendono in prestito all’estero devono esportare, al fine di onorare i loro debiti. La Smoot-Hawley e le ritorsioni estere hanno reso le esportazioni più difficili. Il risultato è stato il default diffuso sul debito estero, difficoltà finanziarie e crollo dei flussi internazionali di capitali.

In secondo luogo, le guerre commerciali alimentano le tensioni geopolitiche. La Camera dei deputati francese si indignò per la tassazione americana sulle esportazioni di specialità francesi e sollecitò una guerra economica contro gli Stati Uniti. Il Regno Unito tassò le importazioni dagli Usa, privilegiando il Commonwealth e l’Impero, facendo arrabbiare Hoover e il suo successore, Franklin Delano Roosevelt. Il primo ministro canadese Mackenzie King parlò di “guerra di confine”, termine diplomatico per indicare il deterioramento delle relazioni. Gli sforzi per stabilizzare il sistema monetario e porre fine alla crisi finirono in secondo piano.

Peggio ancora, i leader americani, inglesi, francesi e canadesi si scontrarono nel momento in cui avrebbero dovuto lavorare insieme per far progredire altri obiettivi comuni. Dopo tutto, politica economica a parte, vi era una minaccia ancora maggiore nel 1930, vale a dire l’ascesa di Hitler e la ri-militarizzazione tedesca. Il ricorso unilaterale alle restrizioni commerciali, mediante una cooperazione diplomatica più difficile, ha complicato gli sforzi per mobilitare una coalizione di chi voleva contenere la minaccia nazista.

La protezione attraverso le tariffe doganali può non essere una cattiva politica macroeconomica in una trappola di liquidità. Ma ciò non la rende una buona politica estera – per Trump o per chiunque altro.

© Riproduzione riservata