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Come svelare le maschere del male

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Come svelare le maschere del male

La presenza del Papa alle GMG è anzitutto l’occasione dell’incontro con i giovani del mondo, ma anche di visita al paese ospitante, ai sui simboli, alle sue memorie. E la Polonia ha tra i simboli e le memorie il ricordo di Giovanni Paolo II (la GMG di Cracovia si svolge nella città del Papa che le ha inventate e che papa Francesco ha santificato), ma anche i drammi che il Novecento ha consumato in queste terre. Drammi paradigmatici, sotto le diverse insegne del totalitarismo nazista e di quello comunista. E alla Polonia, oggi travagliata da un processo di involuzione democratica, Francesco ha chiesto di far «crescere la memoria buona».

La visita che ieri papa Francesco ha fatto al campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau è emblematica del cumulo di odio e di male che il Novecento ha manifestato nel cuore dell’Europa e che ha la sua espressione unica nella Shoah. Auschwitz appare quasi come un fenomeno sovrastorico, che sfida la comprensione umana per la disumanità che espresse: eppure uomini pianificarono, organizzarono, ordinarono e produssero industrialmente la morte.

La visita di Giovanni Paolo II nel 1979 aveva avuto un significato politico, oltre che religioso, di critica alle ideologie del Novecento e di speranza per la Polonia di un ruolo di pace nella geopolitica dell’Europa. Quella di Benedetto XVI nel 2006 un significato teologico ed esistenziale: «Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l’uomo… è quasi impossibile - ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un papa che proviene dalla Germania. In un luogo come questo vengono meno le parole, in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio - un silenzio che è un interiore grido verso Dio: perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». In questa continuità, quella di papa Francesco è stata una visita senza discorsi e di preghiera, di affidamento a Dio.

Papa Francesco ha fatto risuonare il silenzio. Il mondo ha visto parole e immagini del silenzio. Qui il papa ha attraversato il viale del campo, quella prospettiva di morte che accolse oltre un milione di persone, ebrei soprattutto. Ha pregato accanto al muro delle fucilazioni come fosse al Muro del pianto. Ha pregato nella stanza del francescano Massimiliano Kolbe, testimone di bene in mezzo a tanto male. Ha sostato di fronte alle 23 lapidi delle nazioni dei deportati. Ha guardato i camini. Ha pregato accanto alle “ingegnose dimore della morte/ quando il corpo di Israele si disperse in fumo”, come ha salmodiato anni fa la poetessa di origine ebraica Nelly Sachs. Ha incontrato un gruppo di superstiti. Anziani che dopo di allora hanno portato nel cuore l’angoscia di un possibile ritorno dei Lager e la “colpa” di essere sopravvissuti. E un gruppo di “Giusti”, di quanti salvarono ebrei dallo sterminio. Ha chiesto a Dio di perdonare tutto questo.

Se c’è qualcosa che lega, nella loro diversità, l’assassinio di padre Jacques e la memoria dello sterminio degli ebrei è la manifestazione del male. La complessità del nostro tempo è evidente anche dalle molte e diverse maschere del male. Basterà ricordare come il male si sia mostrato anche attraverso forme apparentemente positivi: da primato della ragione strumentale, alla necessità storica, al socialmente giusto e naturalmente alla vendetta di Dio.

L’affermazione che papa Francesco ha fatto in aereo mentre giungeva a Cracovia è soprattutto un invito a capire le nuove maschere del male e ad evitare di cortocircuitare tutto sulla giustificazione religiosa. In riferimento all’attacco jihadista ai cristiani in molte parti del mondo ha detto: «Questa è guerra. Non è tanto organica, forse; organizzata, sì. Ma non è guerra di religioni». Lo aveva detto ancora. E come lui tutti i papi precedenti. In particolare Giovanni Paolo II. Non è vera fede quella di chi massacra in nome di Dio. Le religioni autentiche cercano la pace. Se il mondo occidentale, culturalmente cristiano, cede all’idea della guerra tra religioni ha perso definitivamente se stesso. È questo che il papa, lucidamente, sa e vuole evitare.

Dichiarare che si tratta di guerra, ma non di guerra di religioni, significa lasciare all’Islam, alla maggioranza dei musulmani, oggi messa in questione dall’orrore jihadista, la possibilità storica di evitare di essere schiacciati e ricompresi nella categoria della barbarie a motivo del loro credo (cioè della cosa più profonda che definisce la loro identità). Significa chiamarli a un salto di consapevolezza generale, inevitabile nel tempo della globalizzazione, nel rapporto tra islam e modernità.

Ridurre tutto a un unico fenomeno giustificativo è una banalizzazione pericolosa, oltre che inutile. Forse ha ragione Olivier Roy quando puntualizza che c’è stata in Francia una islamizzazione del radicalismo, che coinvolge la seconda generazione dei musulmani in Europa. I giovani. In questo la Francia è il paese più colpito. Qui il modello di integrazione francese ha fallito. Diversi giovani che appartengono alla seconda generazione non si sentono cittadini francesi di fede islamica. Si sentono violentemente contro. Fino all’annichilimento di sé. Come ci si difende da questo nichilismo? Militarizzando le chiese e le sinagoghe? Creando ghetti? Non è passato troppo tempo da quando nel dicembre del 1933, un apprezzato biblista tedesco come Gerhard Kittel, dava alle stampe un pamphlet dal titolo “La questione ebraica”, nel quale teorizzava religiosamente l’istituzione di un regime giuridico speciale per gli ebrei tedeschi: il diritto del forestiero. La perdita di cittadinanza. La polemica di Martin Buber non fu sufficiente a fare aprire gli occhi.

E c’è poi una radicalizzazione dell’islam nei paesi a maggioranza musulmana. Ma anche qui è sul tema del radicalismo che conviene insistere. Il processo di radicalizzazione porta un individuo o un gruppo ad agire in forme violente collegandosi a una ideologia, a contenuto politico, sociale o religioso, estrema. La risposta sotto forma di guerra all’Isis è fattibile anche all’interno del diritto internazionale. Ma le politiche dei paesi che se ne fanno carico sono quantomeno contradditorie e diversamente interessate. La lotta al terrorismo della Turchia non è quella della Russia, diversa è quella degli Stati Uniti e probabilmente diversa ancora è quella della Francia. Quando Francesco parla di guerra motivata da molteplici interessi dice questo.

Le comunità musulmane, le loro autorità religiose non possono limitarsi alle dichiarazioni di condanna (peraltro non così unanimi e generali), ma debbono isolare quanti tra loro si professano jihadisti o terroristi di Dio. Il terrorismo islamista è una realtà e va combattuta. Ma questa lotta la si vince se il mondo musulmano lo sconfessa e lo isola. Papa Francesco sta chiedendo al mondo musulmano un dialogo alle radici autentiche delle rispettive fedi. Che ne sarebbe anche del cristianesimo fuori da questa prospettiva? Ai giovani radunati a Cracovia, Francesco ha proposto un Dio che “ci salva facendosi piccolo, vicino e concreto”. Piccolo nella pienezza dell’umanità, vicino nella sua grazia, concreto nel suo amore. Non c’è nelle scritture un altro Dio cristiano.

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