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Equilibri mondiali sul pendolo elettorale

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Scenari

Equilibri mondiali sul pendolo elettorale

«La politica estera rischia di trasformarsi in una suddivisione di politiche domestiche, anziché un esercizio per plasmare il futuro», scriveva Henry Kissinger due anni fa in World Order, il suo ultimo sforzo editoriale. Donald Trump allora non era nemmeno un’ipotesi: non era a lui che Kissinger pensava ma nessuno come lui è l’ideale interprete di questa mutazione.

La politica di vicinato trasformata in un muro da Tijuana sul Pacifico a Matamoros sul golfo del Messico; l’esclusione dalla Nato dei paesi che per difendersi non spendono il 2% del loro Pil, alternativamente all’uscita degli Usa dalla Nato; gli alleati asiatici lasciati senza ombrello nucleare; Vladimir Putin invitato a usare gli hackers per svergognare la candidata democratica; una politica mediorientale ridotta al “tradimento” di Hillary per la morte dell’ambasciatore americano a Tripoli: «dovrebbe essere messa davanti a un plotone d’esecuzione» aveva proposto alla convention Al Baldasaro, rappresentante del New Hampshire e consigliere di Trump per i reduci di guerra.

È difficile immaginare quale sarebbe la diplomazia americana se Donald Trump fosse eletto il primo martedì del prossimo mese di novembre, e avesse come minimo quattro anni per «plasmare il futuro». È sempre necessaria una tara fra ciò che si dice nei comizi e quello che poi si fa nello studio ovale. Mai tuttavia un candidato aveva parlato così nelle primarie, alla convention e, presumibilmente, continuerà a fare nella fase più decisiva della campagna. Si dice anche che, per quanto parli, alla fine un presidente deve poi affrontare l’apparato: il Pentagono, il dipartimento di Stato, la burocrazia, i pianificatori politici, la stampa, il sistema di alleanze. Ma la presidenza degli Stati Uniti è anche il posto più vicino alla dittatura di qualsiasi sistema democratico. La determinazione di Trump non va sottovalutata.

Dalle dichiarazioni che si possono raccogliere, è possibile prevedere che Trump avrebbe una reazione privilegiata con Vladimir Putin: più da uomo d’affari che da statista. Il resto è piuttosto misterioso. Immaginare cosa sarà la politica estera di questo candidato repubblicano è come disquisire su un incubo. È più gossip che realtà, più fantapolitica che scienza politica. Abbiamo tracce più chiare e alcune prove evidenti della politica estera americana con Hillary. Per capirlo è molto utile l’autobiografia di Leon Panetta che è stato capo della Cia e segretario alla Difesa di Obama ma nella sua amministrazione, per dirla all’italiana, era in quota Clinton. È probabile che Hillary lo richiami in servizio. “Worthy Fights – A Memoir of Leadership in War and Peace”, ci spiega che da segretaria di Stato Hillary era molto più pragmatica e tradizionalista (rispetto ad alleanze e impegni) di Obama.

È dunque possibile che la presidente Clinton rassicuri gli alleati in Europa, Medio Oriente e Asia, riguardo alla presenza americana nel mondo: come tutti gli imperi anche quello americano ha forse iniziato il suo declino, ma occorrerà tempo. Sarà più pragmatica e meno idealista con Putin; forse visiterà subito Israele (Obama l’ha fatto solo nel secondo mandato) ma i suoi rapporti con Bibi Netanyahu non saranno migliori.

Tuttavia, qualsiasi cosa farà e anche se a novembre vincerà con un abisso di voti, Hillary Clinton non potrà ignorare le ragioni per cui un uomo come Donald Trump abbia potuto sequestrare un intero partito americano e l’interesse dell’opinione pubblica: la crisi del sistema e della sua leadership. A partire dalle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, fino alla Siria, passando per le grandi promesse sui benefici della globalizzazione, degli scambi commerciali e delle politiche Nato, l’élite americana – repubblicana e democratica – ha mentito o illuso, oppure promesso cose non realizzate.

Trump ha il suo programma barbaro ma efficace per cambiare le cose, abbandonando il resto del mondo a se stesso. Hillary dovrà essere altrettanto efficace, affermando ragioni concrete e condivise sul perché l’America dovrebbe continuare a essere il leader del mondo. Sapendo però che i primi da convincere questa volta saranno gli americani.

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