Mai come in queste due settimane di convention, abbiamo visto con grande chiarezza le due Americhe che si presenteranno agli elettori a novembre, per la scelta del nuovo presidente. Per la prima volta nell'ultimo secolo abbiamo davanti agli occhi due fotografie del Paese storicamente diverse fra loro. C'è l'America di Hillary Clinton legata alla continuità e agli ideali dei padri fondatori e l'America di Donald Trump che vuole una rottura con valori e dottrine che formano l'immagine che il mondo ha di questo Paese.
Occorre essere molto chiari. La rottura di Trump è radicale anche all'interno del partito repubblicano nonostante la parvenza di unità a Cleveland. La leadership del partito, gli ex presidenti George Bush e George W. Bush, leader come Mitt Romney o persino Ted Cruz, persino i grandi finanziatori repubblicani come i fratelli Koch, hanno respinto e respingono Trump perché capiscono la natura demagogica (e pericolosa) del suo cambiamento: la forza americana è sempre stata quella di avere un centro politico attorno al quale i due partiti, pur con battaglie feroci hanno combattuto le differenze ora sull'aborto ora sul libero mercato o sull'educazione o sulle nomine per la Corte Suprema.
Se a Cleveland c'è stata unità, privatamente anche i leader congressuali respingono e disprezzano la prepotenza di Trump, aggressivo, offensivo, approssimativo, impreparato, fuori dalla tradizione che ha unificato le regole della lotta politica. Mike Bloomberg, ex sindaco di New York, indipendente, ha riassunto questi sentimenti nel suo intervento dell'altra sera: «La scelta Trump è una scelta rischiosa, avventata, radicale che non ci possiamo permettere». Proprio mercoledì Trump ha indirettamente sottoscritto quelle parole con la sua richiesta alla Russia di aiutarlo nella ricerca delle mail di Hillary Clinton, dimostrando così in modo lampante l'umoralità estrema del suo carattere.
Per gli esperti, per i politici, per un candidato alla presidenza americana un’uscita di quel genere è inconcepibile. Per chiunque altro sarebbe stata equivalente a un suicido politico. Ma non per lui. È questa la differenza storica rispetto al passato, Trump, grazie a linguaggio nuovo, grazie all’insulto, grazie alla sua energia è riuscito a spaccare i parametri collaudati e radicati della politica americana. Ha attaccato, in parte giustamente, gli eccessi e l’arroganza della correttezza politica per conquistare un mondo trasversale di opinione pubblica stanca delle parole, delle promesse, della vita difficile, della superiorità intellettuale soprattutto della sinistra: «Tutto purché si cambi», sembra essere il motto dei trumpiani.
Il fenomeno lo conosciamo bene perché abbiamo anche in Europa la forza di movimenti populisti e demagogici che promettono quello che vuole ascoltare la gente delusa, anche se impossibile. E lo abbiamo conosciuto in America, ma si è sempre trattato di una forte minoranza. L’America ha naturalmente le sue falle, anche commesso molti errori in politica estera e molti abusi con le sue forze armate. Ma si è sempre cercato di rimediare, di investigare, di punire, di ritornare ai valori che definisco il Paese che conosciamo. È questa la costante che vediamo nei sentimenti tradizionalisti che prevalgono nelle grandi pianure, nell’energia innovativa dell’America che dalle due coste guarda a oriente e a occidente. Barack Obama, raccontando dei suoi nonni del Kansas ci ha ricordato che il cuore dell’America non ama i gradassi, i bulletti, coloro che straparlano, si vantano e mettono loro stessi al centro di tutto. Non rispetta la cattiveria gratuita, l’abuso del potere o la perenne ricerca di scorciatoie nella vita. Finora l’America ha fatto suoi i “core values” dei Padri Pellegrini che arrivarono con la Mayflower nel settembre del 1620 privilegiando «i tratti dell’onestà, del duro lavoro, della gentilezza, della cortesia, dell’umiltà, responsabilità, dell’aiutarsi gli uni con gli altri».
Ma tutto questo oggi viene rimesso in discussione. Con le rivoluzioni tecnologiche che scardinano la sicurezza sul lavoro, con il terrorismo, con le tensioni razziali, con la percezione di un boomerang violento in arrivo dalla globalizzazione, Trump ha avuto la genialità di capire come la sua personalità dirompente potesse coincidere con questo movimento di insofferenza secolare, «tutto, purché si cambi». E nonostante gli esperti, gli statistici, coloro che studiano le dinamiche del voto locale e regionale ci dicano che Hillary vincerà a novembre, oggi la partita è aperta. Alla fine delle convention, l’America è dunque a un bivio. La strada di Hillary continua lungo il percorso che ha come presupposti il multilateralismo e le colonne portanti della Pax Americana. Quella di Trump porta a un salto nel buio. C’è da preoccuparsi? Abbastanza. Ma se Trump dovesse vincere, e questo giornale, a convention ultimate non lo auspica, il Congresso, la forza di questa democrazia e la separazione dei poteri prevista dai padri fondatori proprio per situazioni simili, consentiranno di tenere anche una imprevedibile forza della natura come Trump a briglie strette.
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