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Chi negozia davvero con il Regno Unito?

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Scenari

Chi negozia davvero con il Regno Unito?

L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea avrà probabili conseguenze economiche su quest’ultima, ma di sicuro ha già prodotto conseguenze politiche al suo interno. Con la sua uscita, il Regno Unito ha messo in luce le divisioni che attraversano la Ue.

Così, anche dall’esterno, il Regno Unito continua ad esercitare un’influenza sul processo di integrazione che è sproporzionata rispetto al suo effettivo potere. Ciò è dovuto al fatto che l’Ue è giunta all’appuntamento della Brexit senza una condivisa definizione della sua natura politica e, quindi, senza una leadership istituzionale riconosciuta.

L’Ue ha continuato ad essere prigioniera di un’ambiguità strutturale nonostante la sua retorica integrazionista. Non ha mai deciso se essere una mera associazione di stati per perseguire obiettivi di natura preminentemente economica (una comunità economica) oppure un’unione di stati per perseguire obiettivi di natura preminentemente politica (un’unione politica).

Si guardi cosa è successo nelle ultime settimane rispetto al problema imposto da Brexit: chi e come dovrà negoziare con i britannici? Sarà il negoziatore scelto dalla Commissione, Michel Barnier, oppure la negoziazione la controlleranno i capi di governo? La risposta non è univoca. Dopo l’esito del referendum britannico, il Consiglio europeo (dei capi di governo) ha subito rivendicato la sua preminenza decisionale sulla negoziazione.

Tuttavia, come era avvenuto in altre crisi, il Consiglio europeo si è immediatamente diviso tra stati membri (come ad esempio la Francia) a favore di una posizione negoziale inflessibile nei confronti del Regno Unito e Stati membri (come ad esempio la Polonia) a favore di una linea negoziale accomodante nei confronti delle esigenze britanniche. Sia nell’uno che nell’altro caso, le motivazioni sono dovute a ragioni di politica interna, non già a valutazioni di politica europea.

Chi sostiene la posizione francese, ha il problema di neutralizzare un forte anti-europeismo al proprio interno.

Chi sostiene la posizione polacca, vuole invece usare Brexit per allargare i propri spazi di sovranità nazionale. In mezzo si è collocata la Germania, preoccupata di ridimensionare le spinte centrifughe dei paesi vicini al Regno Unito, ma anche intenzionata a smussare la posizione francese così da dare ai britannici il tempo da loro richiesto. Una posizione, quella tedesca, motivata dal suo interesse nazionale e non già di una visione europea, avendo quel paese il maggiore interscambio economico con il Regno Unito.

Nonostante tali divisioni, il Consiglio europeo ha quindi nominato il diplomatico belga Didier Seeuws come suo capo negoziatore, ma con un mandato implicito di apertura nei confronti degli interessi britannici.

Ciò che interessava al Consiglio europeo era soprattutto di anticipare la Commissione europea, precostituendo il contesto delle negoziazioni con il Regno Unito al cui interno quest’ultima avrebbe poi dovuto operare. In realtà, da tempo, la Commissione e il suo presidente Juncker sono divenuti l’oggetto di critiche aspre da parte sia della Germania che della coalizione dei paesi dell’est europeo.

Ad esempio. Il tedesco Wolfgang Schauble non digerisce il ruolo politico che la Commissione ha deciso di svolgere nell’interpretazione delle clausole del Patto di Stabilità e Crescita (tant’è che propone con insistenza che tale compito sia affidato ad una agenzia tecnocratica indipendente, come lo European Fiscal Council); la polacca Beata Szydło non digerisce la decisione della Commissione di tenere sotto controllo il suo governo (tant’è che ha reagito duramente alla procedura avviata pochi giorni fa dalla Commissione contro il tentativo del suo governo di controllare la corte costituzionale del paese); l’ungherese Viktor Orban non digerisce la decisione della Commissione affinché tutti gli stati membri dell’Ue si facciano carico di una quota dei rifugiati arrivati sul nostro continente (tant’è che ha promosso una referendum popolare per il prossimo 2 ottobre per contrastare quella decisione). Insomma, questi paesi vogliono essere membri di un’associazione di stati indipendenti che condividono solamente le politiche che a loro conviene.

Il punto è che ciò avviene con la complicità della Germania che utilizza le spinte centrifughe per promuovere un’unione intergovernativa che inevitabilmente esalta il suo interesse nazionale.

Lo stesso discorso del cancelliere Merkel di pochi giorni fa, in merito alla risposta da dare al terrorismo, seppure encomiabile per equilibrio e razionalità, è stato però privo di qualsiasi considerazione strategica sul ruolo dell’Ue nel garantire la sicurezza dei suoi stati membri. La prospettiva della classe politica tedesca è ormai primariamente nazionale.

Di fronte a questo accerchiamento, la Commissione non poteva non reagire. Lo scontro con il Consiglio europeo è stato inevitabile, anche perché in campo è intervenuta la Francia oltre che l’Italia.

Dopo tutto, solamente la Commissione ha l’expertise per svolgere con successo le negoziazioni con il Regno Unito, essendo il Consiglio europeo un’istituzione priva di una sua struttura amministrativa sovranazionale.

Una mediazione è stata infine trovata: Jean-Claude Juncker ha dovuto fare un passo indietro, ma è riuscito a far nominare il francese Michel Barnier come capo negoziatore della Commissione. Ovvero un esponente politico che, nel suo precedente ruolo di commissario per il mercato interno e i servizi finanziari (nella Commissione presieduta da Manuel Barroso, 2010-2014), era divenuto inviso agli operatori della City di Londra e al governo britannico.

Non può stupire che l’attuale governo di Theresa May abbia reagito con stizza a tale nomina, sottolineando subito che i suoi interlocutori rimangono i governi nazionali. Non è un caso che il nuovo primo ministro britannico sia andata in visita nelle principali capitali europee, ma non sia ancora andata a Bruxelles. Insomma Brexit ha contribuito a fare emergere divisioni profonde tra governi nazionali e tra istituzioni europee.

Se così è, allora l’Italia non può accontentarsi di essere invitata al tavolo di un presunto direttorio, rafforzando ancora di più la dimensione intergovernativa dell’Ue.

I direttori sono l’antitesi del progetto di integrazione pensato a Roma nel 1957, anche quando l’Italia ne fa parte. Noi non abbiamo nessun interesse ad assecondare la deriva nazionalista della Germania, né di attendere il risveglio comunitario della Francia. L’Italia dovrebbe invece porsi l’obiettivo di usare la sua recuperata credibilità per promuovere una leadership istituzionale dell’Ue o comunque dell’Eurozona.

Senza tale leadership istituzionale, legittimata democraticamente, sarà impossibile contrastare il ruolo disintegrativo delle leadership nazionali.

Brexit potrebbe rivelarsi un punto di svolta storico: o si va indietro verso una comunità economica o si va avanti verso un’unione politica.

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