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Italia-Germania, le tre lezioni degli stress test

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L'Editoriale|lo scenario

Italia-Germania, le tre lezioni degli stress test

Aqualche giorno di distanza, è possibile trarre un bilancio dall'esercizio di stress test da cui è risultato che, tra le grandi banche, solo il Monte dei Paschi di Siena ha un grave problema di ricapitalizzazione. Rispetto al 2012 il sistema bancario europeo è più solido. I rapporti di capitale sono in media migliorati e quasi sempre i problemi riguardano singoli istituti piuttosto che interi sistemi. Per tutte le banche tuttavia è emerso un problema di redditività. I profitti sono particolarmente bassi in Germania e Italia. In questi due Paesi, il numero eccessivo di banche e il modello di business concentrato sul credito tradizionale fanno sì che il costo del capitale sia superiore al suo rendimento.

Non si tratta di condizioni stabili, in un contesto nel quale i tassi d’interesse resteranno molto bassi per il tempo prevedibile. Gli esercizi delle autorità europee sono serviti a far riconoscere il problema in entrambi i Paesi, che ora dovrebbero smettere di rinfacciarsi le reciproche debolezze. Una differenza tuttavia resta: nessuno può immaginare una fuga dei depositanti dal sistema bancario tedesco (anche se nell’ottobre 2008 ci si andò vicini), mentre gli osservatori internazionali sembrano ostinatamente credere che una crisi di sistema in Italia sia sempre dietro l’angolo. I mercati hanno visto in Germania e Italia due condizioni di debolezza molto simili, i titoli del settore bancario nei due Paesi sono caduti in parallelo, ma nel frattempo lo spread sul rischio sovrano si è allargato e la sfiducia nell’Italia si è approfondita, come dimostrano i dati europei sui flussi dei pagamenti tra istituti di credito e banche centrali, che indicano in particolare che le banche tedesche preferiscono depositare presso la Bundesbank a tassi negativi, piuttosto che prestare all’estero.

Il battage dei media internazionali sulla crisi italiana è un fatto. Possiamo contestare questa prospettiva come sbagliata, troppo condizionata da esperienze passate o semplicemente pregiudiziale, ma non possiamo far finta che non esista. Alcune banche hanno già avviato serie ristrutturazioni, hanno una governance più trasparente e forse stanno imparando a selezionare il management. Su tutte ha però pesato la doppia recessione, cioè la speciale fragilità del Paese. Bisogna dunque ancora rimediare ai problemi strutturali del credito in un Paese ad alto debito pubblico come l’Italia: troppe banche, troppi crediti dati con criteri ambigui, troppi dividendi agli azionisti anche in condizioni critiche, troppi conflitti di interesse, troppi ritardi nell’innovazione, troppi titoli pubblici in portafoglio e troppe pantofole felpate ai piedi dei supervisori. Le vicende di Borsa di questi giorni mostrano che bisogna mettere al sicuro il sistema. Ma è difficile che una rottura con le pratiche di prima sia credibile se non viene accompagnata da una punizione per banchieri e supervisori che hanno sbagliato nel passato. Il primo segnale si è visto ieri.

Sarà necessaria anche un’ulteriore riflessione sul comportamento delle autorità italiane nei confronti dell’Europa. L’applicazione del bail-in corrisponde a un principio corretto perché introduce maggiore disciplina utilizzando meccanismi del mercato. Quando è stato approvato, non era stata data sufficiente importanza al fatto che i titoli soggetti alla procedura di ricostituzione del capitale erano stati distribuiti in Italia a risparmiatori al dettaglio e non solo a investitori professionali. Dal 2012, le banche italiane si sono rafforzate emettendo 67 miliardi di euro di junior bonds, di cui quasi la metà è finita nei portafogli dei piccoli risparmiatori. Sono emersi casi di informazione non corretta ai piccoli investitori italiani. Dopo la crisi di quattro banche minori, la situazione è parsa così critica che si è capito che era necessaria un’applicazione ragionevole del bail-in e del burden sharing facendo leva sulle eccezioni previste nello stesso testo della direttiva. Tra queste eccezioni c’è proprio il fatto che il presupposto del bail-in è che i soggetti colpiti siano stati adeguatamente informati dei rischi che correvano, nonché le condizioni eccezionali tali da creare conseguenze sistemiche o sproporzionate. Anziché far leva sul testo della direttiva e punire quei banchieri che avevano mal informato i clienti, la scelta è stata quella di chiedere pubblicamente la sospensione o la revoca della legislazione europea in vigore. Questa strategia non aveva possibilità di successo e ha fatto perdere credibilità al Paese, rendendo più difficile il negoziato.

L’ulteriore lezione degli stress test riguarda il cattivo coordinamento tra le istituzioni europee. Le eccezioni al coinvolgimento dei piccoli obbligazionisti nel risanamento o risoluzione di una banca sono essenzialmente di due tipi, gli effetti sproporzionati e i rischi per la stabilità finanziaria. Per quest’ultimo, il giudizio deve essere dato da un’istituzione comune. Trattandosi di una valutazione sulla stabilità finanziaria, sarebbe stato logico che venisse da chi è deputato a garantirla, cioè la Bce o il Ssm. Al contrario si è stabilita una competizione tra istituzioni europee e il giudizio è stato avocato dall’autorità per la concorrenza della Commissione Ue. L’esito è stata una confusione tale, nelle procedure e nei pronunciamenti, da creare la sensazione che i motivi di Bruxelles non fossero di risolvere i problemi, ma di accentuarli per esaltare l’importanza del controllore. Un’applicazione automatica del bail-in ne sarebbe stata probabilmente la dimostrazione ultima. Questa logica secondo cui la punizione è sempre più importante della soluzione è strampalata. Nel complesso le tre lezioni indicano che i sistemi bancari sono in condizioni migliori del previsto, ma che l’autocompiacimento sarebbe per l’Italia la risposta esattamente sbagliata.

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