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Trump e la voglia di protezionismo

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Trump e la voglia di protezionismo

Il mondo sta andando al contrario di come eravamo abituati a vederlo andare. La globalizzazione, che ha fatto emergere nuove potenze economiche quali la Cina, non è più di moda e con essa sembrano eclissarsi il multilateralismo e restringersi l’area delle democrazie. «Americanismo, non globalismo, sarà il nostro credo» è la promessa di Donald Trump. Perché, nello scenario distopico da lui rappresentato, l’America come potenza militare e commerciale è stata danneggiata dall’apertura al commercio globale e all’immigrazione. Per farla tornare “grande” occorre, perciò, a suo avviso, rivedere innanzitutto i trattati e le organizzazioni internazionali che costituiscono altrettante pietre miliari della liberalizzazione.

In questa prospettiva, Trump ha ventilato la fuoriuscita degli Stati Uniti dalla WTO e definito il Nafta «il peggior trattato commerciale della storia». Pertanto propone di rinegoziarlo, seppellire gli accordi multilaterali e, in futuro, tornare a quelli bilaterali con i singoli Paesi; nonché di punire con tasse e barriere tariffarie la “scorretta” competizione commerciale di Pechino, la cui espansione ha creato, secondo lui, «il più grande furto di lavoro della storia».

Eppure queste affermazioni, così come la messa in discussione dei principi di solidarietà nell’ambito della Nato, che scaturiscono dalla crisi dell’egemonia statunitense e sono in contrasto con l’epicentro della politica estera americana post-1945, hanno un significativo precedente nei discorsi di Richard Nixon. Nel 1968, in una fase drammatica della storia degli Stati Uniti fra proteste di massa contro la guerra in Vietnam e la ribellione degli afro-americani, Nixon vinse le elezioni presidenziali promettendo stabilità, ordine e disimpegno al posto di interventismo, trasformazione e sacrifici. Con Henry Kissinger, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, ebbe successo appellandosi ai cittadini, disorientati e preoccupati dal declino americano, con una retorica antitetica a quella ottimistica, universalistica e modernizzatrice del ventennio precedente e della “nuova frontiera” di John Kennedy.

Nell’agosto 1971 Nixon, alle prese con un dollaro sopravalutato e un crescente deficit commerciale e federale, annunciò la fine del sistema monetario internazionale di Bretton Woods, imponendo inoltre un dazio del 10% sulle importazioni. All’epoca queste misure sembrarono un segno di debolezza, invece risultarono fondamentali per ridisegnare i rapporti intracapitalistici, in particolare con Germania e Giappone, e riacquisire la leadership e l’egemonia statunitensi.

Ma Nixon era contro l’isolazionismo e affermò che in politica estera l’America sarebbe stata un grande faro «per tutti coloro che nel mondo cercano libertà e opportunità».

Adesso il commercio mondiale ristagna e le posizioni di Trump, se applicate, rischierebbero di aggravare il protezionismo e determinare, nello stesso tempo, alti prezzi, bassa qualità e minori scelte per i consumatori, in primo luogo quelli americani. Sugli accordi commerciali Trump ha rotto sia con il suo partito sia con gli economisti. Ha reso quanto mai incerta la ratifica del Trans-Pacific Partnership(TPP) e promesso di disfarsi dei trattati commerciali “job killing”, inoltre ha minacciato sanzioni per le compagnie americane che spostano le fabbriche all’estero. «È tempo – ha affermato – di dichiarare la nostra indipendenza economica una volta ancora». Trump sta riportando i repubblicani alle loro radici protezionistiche e agli anni fra le due guerre, quando venne approvato il disatroso Smoot-Hawley Tariff Act del 1930.

Ormai, la diffidenza verso i trattati commerciali sembra aver udienza –almeno nella fase pre-elettorale – anche in casa democratica. Dopo Bernie Sanders, che ha criticato a suo tempo gli accordi commerciali multilaterali, anche Tim Kaine, il vice di Hillary Clinton, già a favore dei trattati sembra invece che si opporrà al TPP. La questione è che la liberalizzazione del commercio può aiutare lo sviluppo soltanto se viene gestita con attenta e ponderata considerazione per equilibrare e compensare, in sede politica, una serie di fattori che possono stravolgerne gli effetti positivi.

In tre anni Ue e Stati Uniti hanno fatto ben pochi progressi con il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) per creare la più grande area di libero scambio che, pure, ha l’importante obiettivo di permettere ai paesi occidentali di competere con potenze economiche in ascesa come Cina e India.

Invece, gli incoerenti interventi sulla scena politica internazionale prefigurati da Trump rischiano soltanto di aumentare l’instabilità globale, già di per sé destinata a continuare, dopo l’uscita di scena di Barack Obama.

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