Come vorrei il nuovo Salone del Libro torinese? Che sia occasione per gli autori che, pur dedicandosi seriamente alla fatica artigianale dello scrivere, non mirano a classifiche di vendita o a premi letterari. Che sia vetrina per chi senza rincorrere guadagni ritaglia fette consistenti dal proprio tempo libero per inventare storie, testimoniare verità e lavorare di accetta e di lima: autori capaci di dimenticarsi di riscuotere i diritti d’autore, paghi di una genuina recensione, di mille copie vendute nelle librerie di provincia e nei mercatini di paese, eccitati da una storia vera, plausibile, ben sviluppata e scritta in buon italiano, più che dalle sirene del denaro. Che non sia (solo) il Salone dei bestseller, già reperibili in qualunque libreria, né dell’autobiografia del calciatore, dell’attore di grido, e neppure del libro di ricette del cuoco stellato. Che sia soprattutto il Salone dei libri del cuore, dei coraggiosi editori indipendenti che hanno resistito in questi anni turbolenti continuando nella missione di investire nei loro autori e di regalare storie originali ai lettori. Che sia il Salone delle librerie, delle biblioteche, ma soprattutto dei lettori, da conquistare partendo dall’esperienza del “vecchio” Salone e dai valori del territorio: si ricominci dal successo di iniziative come il Salone Off, e da un Piemonte capace di innovazione, come il Circolo dei Lettori e l’idea di Settimo Torinese capitale della cultura 2018: candidatura, questa, che attinge a tesori fatti di partecipazione e accoglienza nonché di biblioteche capaci di portare i libri in ospedale, nel parco, in fabbrica e ai ragazzi.
Teresio Asola
Non mancano a Torino e in Piemonte energie e passioni, come quella testimoniata dal lettore, che saranno in grado di immaginare un nuovo futuro per il Salone del libro (sull’attualità della cui formula, per la verità, si discuteva da tempo). Non so se gli scrittori condividano appieno l’accorato invito alla sobrietà, se non alla povertà: magari si chiederanno per quale ragione il loro mestiere (ché di questo si tratta) debba essere meno riconosciuto di tanti altri lavori magari socialmente meno apprezzabili e ben lautamente retribuiti; e ricorderanno che tanti loro colleghi, per esempio Balzac, senza l’assillo dei soldi non avrebbero prodotto i capolavori che ancora oggi ci deliziano. Credo insomma che la componente industriale e produttiva dell’editoria non possa essere trascurata, se non vogliamo tornare all’era dei (costosissimi) manoscritti; e che occorra, perciò, conciliare la natura di prodotto di massa che molti libri hanno ormai inesorabilmente assunto, e che consente agli editori di campare, con la sopravvivenza di spazi autonomi di produzione che siano rifugio per la ricerca, lo spirito critico e l’evasione dalle mode imperanti. Infine, solo una volta nella missiva ricorre il riferimento alla categoria del lettore: mi pare che questa sia la questione capitale. In un Paese in cui, secondo i dati Istat, più della metà degli italiani non legge un libro (ma nel Sud la percentuale dei non lettori arriva a due terzi), credo che la diffusione della lettura dovrebbe essere sentita come un’emergenza nazionale. Non partecipo alla retorica secondo la quale leggere renda per ciò stesso migliori: ma ritengo che la lettura aiuti a costruire cittadini più critici, una risorsa ancora più preziosa in tempi dominati dalle bufale che corrono su rete e social. Perciò a Torino piuttosto che a Milano la priorità dovrebbe essere quella di elaborare politiche per favorire la lettura. Non è detto (anzi escludo) che servano solo gli appuntamenti fieristici, comprensibilmente dominati da natura commerciale: interventi su scuole e biblioteche (e dunque con la corresponsabilità di enti locali e istituzioni private) possono fare ancora di più. Certo sarà bene vincere campanilismi e retorica, nella speranza che si compia la raccomandazione di Kurt Vonnegut: «Non abbandonate mai i libri. È così piacevole tenerli in mano, col loro peso cordiale».
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