Che l’emergenza migranti fosse lì lì per esplodere nuovamente era una previsione fin troppo facile. Il fenomeno ha un carattere strutturale in gran parte legato all’ineguale distribuzione delle opportunità tra sud e nord del mondo, in cui oltretutto che cosa sia sud e che cosa sia nord è continuamente soggetto a ridefinizione. Così, per esempio, lo stesso Paese africano può essere inserito nel circuito della “nuova globalizzazione” (partita in concomitanza con la crisi finanziaria del 2008) e contemporaneamente soggetto a nuovi esodi di quella parte della sua popolazione che dallo sviluppo diseguale si ritrova schiacciata e scacciata. Altrettanto strutturale, cioè non modificabile, è la collocazione geografica “infelice” di alcuni Paesi del nord, come l’Italia, la Grecia e la Spagna che si ritrovano a essere la frontiera naturale su cui si infrangono le ondate migratorie. E se la gran parte di chi fugge da guerra, fame o miseria ha per meta Paesi ben più prosperi, dinamici economicamente e meglio attrezzati socialmente del nostro, resta il fatto che da queste coste debbano in gran parte passare. Si dice spesso, e con ragione, che è la politica a determinare la geografia, e a far sì che un confine sia più o meno poroso o sigillato, armato o indifeso di altri. Nel caso delle migrazioni vale esattamente il contrario: per la Svezia, la Danimarca o la Germania è molto più semplice rendere difficile (non è un gioco di parole) l’attraversamento indesiderato dei propri confini di quanto non lo sia per l’Italia o la Grecia. Nonostante le dichiarazioni compassionevoli della signora Merkel, che da un anno a questa parte si ripetono con una certa cadenza, la Germania ha di fatto sostenuto tutti i governi che sulla rotta balcanica hanno eretto barriere e ostacoli al flusso di migranti (così allontanando da loro i confini tedeschi) per poi sigillare il tutto grazie all’accordo con la Turchia di Erdogan, imposto ai partner europei.
Non c’è dubbio, però, che almeno in un senso la politica continui a determinare la geografia anche rispetto alla questione dell’immigrazione indesiderata e non autorizzata: ed è quello delle guerre civili, tragicamente alimentate (come in Libia nel 2011) o altrettanto tragicamente ignorate (come in Siria, in Yemen, in Somalia), o delle satrapie del terrore (come l’Eritrea, la nostra ex colonia di cui ci disinteressiamo da sempre e dal quale proviene circa un migrante ogni cinque di quelli che sbarcano in Italia). Altrettanto vale per la coerenza, tempestività e lungimiranza con cui i governi nazionali si dedicano al problema. E qui, per noi, i dolori si sommano ai dolori.
L’Italia continua a far fatica ad affrontare la questione dei migranti, intrappolata dal cozzare di logiche e culture opposte e reciprocamente sorde (dall’accoglienza indiscriminata all’ossessione securitaria), sempre necessariamente condizionata dall’aria che tira oltre Tevere, soprattutto in cronica carenza di ossigeno quando debba elaborare strategie la cui applicazione vada oltre le prossime amministrative, il prossimo referendum, le prossime elezioni politiche. Il caos in cui Milano è a un passo dal precipitare è solo il caso ultimo e più clamoroso di una società in affanno alla quale le istituzioni politiche (dal centro alla periferia) sono incapaci di offrire una governance efficace. L’enfasi con cui in questi mesi si è parlato del “terzo settore” come risorsa per mettere sulle spalle di altri l’onere del problema, una sorta di privatizzazione del sociale, sta dimostrando tutti i limiti di una gestione che si limita a trasferire risorse pubbliche al nuovo business della misericordia mentre si guarda bene dall’assumere la responsabilità di governare i fenomeni.
La Turchia ha nuovamente minacciato di far saltare l’accordo “visti contro profughi”. A Bruxelles e a Berlino avevano voluto capire che i 6 miliardi di euro promessi ai turchi fossero un prezzo congruo perché loro facessero il lavoro sgradevole al posto nostro. Ad Ankara si era sempre finto di ignorare che l’abolizione del visto per i cittadini turchi fosse soggetto a un miglioramento della claudicante “democrazia” alla turca. Ora i rispettivi bluff vengono al pettine è la sensazione è che il coltello dalla parte del manico l’abbia Erdogan ma che il ventre molle in cui potrebbe venire affondato sia il nostro, e non quello tedesco.
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