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Tasse e spesa, settant’anni di autonomia senza rete

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L'Editoriale|Editoriali

Tasse e spesa, settant’anni di autonomia senza rete

Da che, nel 1970, il precetto costituzionale è stato attuato, la finanza delle Regioni è stata terra sempre fertile di sorprese. Ma il più delle volte – si pensi a quelle fiscali- si è trattato di pacchi-dono che semplici cittadini e imprese, se avessero potuto, avrebbero volentieri rimandato al mittente.

Nell’estate del 1947, il vecchio e inascoltato liberale Francesco Saverio Nitti aveva tuonato alla Costituente contro il “disastro” prossimo venturo domandandosi perché i colleghi parlamentari non si preoccupassero del progetto di finanza regionale. Quasi settant’anni dopo, mentre è in pista il referendum sul riassetto costituzionale che opportunamente riaccentra nelle mani dello Stato questioni fondamentali come le politiche dell’energia e delle infrastrutture, la riforma della contabilità degli enti locali (2011) sta gradatamente alzando il velo su una nuova sorpresa regionale: il disavanzo reale che c’era, e di cui un po’ tutti sapevano, ma che non si vedeva stampato nei bilanci. E della cui esistenza si poteva così comodamente solo almanaccare.

Anche grazie al nuovo riaccertamento, imposto per legge, di tutti i residui attivi (somme accertate e non riscosse entro il termine dell’esercizio) e passivi (somme impegnate e non pagate) ora la verità sta venendo a galla per tutti gli enti locali. Il conto delle Regioni è salato: 33 miliardi di disavanzo, cifra che equivale all’ipotizzata prossima manovra per la legge di bilancio, totalizzati da 16 Regioni e 2,5 miliardi di avanzo quotati da Friuli Venezia Giulia, Marche, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige. Lazio (9,2 miliardi) e Piemonte (7,2 miliardi nel 2015, circa 800 in meno rispetto al 2014) fanno invece circa la metà del deficit “imprevisto” complessivo.

L’operazione-verità, che fa pulizia nelle poste di bilancio e riporta tutti a confrontarsi con una realtà fin qui rimasta sommersa, è utile ma anche amara per il futuro. Come è stato notato, la riforma contabile spinge anche la finanza regionale a passare dal percorso “spendo quello che incasserò” a quello “spendo quello che posso pagare, ovvero ciò che incasso”. Giusto.

Ed è inevitabile, dopo la fase di sperimentazione avviata nel 2012, che l'affacciarsi sulla scena di pesanti e reali disavanzi delle amministrazioni sia ora fonte di preoccupazione. Molte risorse, si dice, dovranno necessariamente essere accantonate a fronte di crediti dubbi e non si potranno più spendere denari per programmi e servizi di sostegno alle collettività amministrate nel momento in cui invece ci sarebbe necessità di una scossa pro-ripresa.Ma d'altra parte si poteva continuare a spendere ciò che non era spendibile, scavando nel buco dell'extra-contabilità e creando debiti fuori bilancio per rincorrere, il più delle volte, solo le spese correnti? E come non considerare anche che si consente alle Regioni e agli altri enti locali di rientrare in 30 anni dal disavanzo che deriva dall'accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità o che ci sono 7 anni di tempo per ripianare gli extra deficit regionali targati 2014? E' evidente che per molte scelte sbagliate di ieri o di oggi si pone un carico sulle generazioni future e che tempi di rientro così lunghi pongono un serio problema.Ha detto il Procuratore della Corte dei Conti piemontese, Giancarlo Astegiano, che bisogna «comprendere e far emergere, con chiarezza, le ragioni che hanno giustificato, per molti anni, l'assunzione di impegni di spesa con leggi regionali, convenzioni, affidamenti politici che non erano sostenuti da adeguate entrate». Tanto più se si considera che «l'erogazione di servizi od attività in assenza di copertura implica solamente un sollievo temporaneo e legato alla contingenza politica dei bisogni della collettività in quanto è destinato a produrre situazioni di disavanzo alle quali, prima o poi, bisogna far fronte».Prima o poi. Settant'anni dopo, le obiezioni e le domande del vecchio Nitti restano attuali.
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