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Brexit, il lungo letargo di Londra

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le incertezze del dopo voto

Brexit, il lungo letargo di Londra

Brexit è in alto mare: due mesi dopo il voto che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, Londra non ha dato alcuna indicazione sui tempi, i modi e soprattutto i contenuti del “divorzio” da Bruxelles. Lo stallo ha portato a coniare un nuovo termine: «Neverendum», il referendum che non si conclude mai.

Complice l’estate, il Governo ha rinviato ogni decisione. La premier Theresa May ha dichiarato più volte che «Brexit significa Brexit», espressione sibillina che è stata interpretata come una garanzia agli elettori che la loro volontà sarà rispettata. Il Regno Unito, quindi, non cercherà scappatoie e lascerà definitivamente la Ue.

La May è poi partita per una rilassante vacanza nella neutrale Svizzera, seguendo le orme di due donne alle quali si ispira. Margaret Thatcher, unica altra donna premier britannica, amava passare il tempo libero in Svizzera, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel, come la May, predilige le escursioni in montagna.

Con la premier in vacanza in un Paese che non fa parte della Ue, scelta tutt’altro che casuale, e il Parlamento chiuso per la pausa estiva, Brexit è andata in letargo. Il silenzio del Governo è stato definito «assordante» tanto è anomalo, anche se comprensibile.

La questione principale è quando Londra deciderà di invocare l’articolo 50 dei Trattati e avviare trattative formali di uscita che si prevede durino almeno due anni. La May ha messo in chiaro prima di partire che se ne sarebbe parlato a inizio 2017, perché il nuovo Governo ha bisogno di tempo per mettere a punto una strategia negoziale coerente (ammissione implicita che i sostenitori di Brexit non avevano un progetto ben definito).

La definizione di una strategia non è aiutata dal fatto che la May ha suddiviso le competenze fra tre ministri – Boris Johnson, ministro degli Esteri; David Davis, ministro per l’Uscita dalla Ue; e Liam Fox, ministro del Commercio internazionale. Sono tre forti personalità che hanno opinioni diverse e, a dar retta ai pettegolezzi, hanno già avuto numerosi e aspri diverbi su Brexit e su come dividersi le competenze e persino gli uffici.

Davis e Fox inoltre devono creare i loro ministeri ex novo, non hanno ancora una sede permanente e stanno disperatamente reclutando personale qualificato. Pare sia particolarmente difficile per Fox che non trova abbastanza esperti di commercio per poter negoziare i trattati bilaterali con il resto del mondo che, secondo le promesse, libereranno il Regno Unito per sempre dalle spire di Bruxelles.

Negli ultimi giorni, però, è circolata la voce sempre più insistente che Londra non intende invocare l’articolo 50 fino alla fine del 2017. La ragione è che è meglio aspettare fino a dopo le elezioni di maggio in Francia e di settembre in Germania per poi avviare trattative con interlocutori stabili e forse nuovi. Presi dalla politica interna, i leader delle due maggiori economie europee nei prossimi mesi non potrebbero inoltre dedicare abbastanza tempo e attenzione ai negoziati con Londra. Secondo questo scenario il divorzio da Bruxelles non avverrebbe prima del 2019/2020.

La prospettiva di un rinvio sine die ha causato l’ira dei sostenitori di Brexit, che hanno fretta e iniziano a scalpitare. L’ex leader Tory Iain Duncan Smith ha scritto una lettera aperta alla May invitandola a fare presto per il bene della Gran Bretagna, e accusando i filo-europeisti che volevano restare nella Ue di orchestrare una subdola manovra di rinvio permanente. La parola neverendum è stata coniata proprio per infiammare gli animi dei milioni di cittadini britannici che hanno votato a favore di uscire e che rischiano di sentirsi traditi.

Non a caso Nigel Farage, fondatore di Ukip e grande vincitore del referendum, che ha lasciato la politica dopo il voto perché aveva ormai ottenuto il suo scopo nella vita, negli ultimi giorni ha avvertito di essere pronto a scendere di nuovo in campo se gli elettori verranno presi in giro.

Secondo altre fonti, invece, dietro il silenzio del Governo c’è un fervere di attività, e Londra avrebbe già deciso di non tentare neanche di restare nel mercato unico ottenendo concessioni da Bruxelles. La strategia sarebbe quella di optare per un accordo da partner esterno della Ue, come quello siglato di recente dal Canada, con un’intesa a parte sui servizi finanziari.

Questo scenario è in linea con quanto si mormora nella City londinese. Il settore finanziario si sarebbe rassegnato a perdere il trading in euro e il passporting, che consente a qualsiasi istituto Ue di vendere prodotti e servizi finanziari in altri Paesi membri senza dover aprire e capitalizzare una filiale.

La City potrebbe uscire dal mercato unico e a reinventarsi come centro finanziario globale, attraendo più banche asiatiche e americane per compensare la probabile dipartita di molte europee. Il modello, in questo caso, sarebbe quello degli accordi bilaterali siglati da Ue e Svizzera. È stata rispolverata l’idea di un’alleanza “F4” tra i grandi centri finanziari di Londra, Zurigo, Hong Kong e Singapore.

Il problema è che Londra vuole imporre limiti all’immigrazione e non intende accettare la libera circolazione di persone. Molti politici sostengono che il vero messaggio del referendum è che gli elettori britannici vogliono chiudere o perlomeno controllare le frontiere.

Una serie di indicatori economici ha galvanizzato le speranze di un radioso futuro post-Brexit per la Gran Bretagna. Dopo le fosche previsioni di un crollo della fiducia, della sterlina e degli investimenti, di una breve anticamera prima della recessione, il pessimismo è stato contraddetto.

La sterlina è scesa in media del 10%, ma questo ha avuto un immediato effetto positivo sul turismo, con numeri di arrivi in ascesa già in luglio e indicazioni di una maggiore spesa da parte dei turisti stranieri incentivati dal calo della valuta. Invece del temuto crollo della fiducia dei consumatori, il dato di luglio ha mostrato a sorpresa un aumento dell’1,4% delle vendite al dettaglio, segnale che Brexit non ha spento la passione degli inglesi per lo shopping.

Segnale ancora più importante, la debolezza della sterlina ha rilanciato le esportazioni, con gli ordini ai massimi da due anni, secondo la Cbi, la Confindustria britannica. L’ultimo dato sul mercato del lavoro ha poi mostrato l’occupazione ai massimi storici, e un netto calo delle richieste di sussidi invece dell’impennata prevista dagli economisti.

È vero che l’effetto del referendum sul mercato immobiliare è stato negativo, e che le imprese si dicono incerte sul futuro. Inoltre l’inflazione, che era allo 0% lo scorso anno, sta salendo e si prevede tocchi il 3% nel 2017. Gli economisti saggiamente avvertono che è presto per festeggiare, perché il vero impatto di Brexit sull’economia si vedrà il prossimo anno. Resta il fatto che, vista da Londra oggi, la paventata recessione sembra più lontana. Un po’ come Brexit.

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