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Rossi: «Limiti alle cyber-indagini da fissare per legge»

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intervista

Rossi: «Limiti alle cyber-indagini da fissare per legge»

L’avvocato generale presso la Procura della Cassazione, Nello Rossi
L’avvocato generale presso la Procura della Cassazione, Nello Rossi

Lo sviluppo tecnologico deve andare di pari passo con il «senso del limite», per evitare – scriveva Hanna Arendt nel saggio “Vita activa” – che gli uomini «da creatori diventino appendici dell’apparato tecnologico». Cioè succubi. Il guaio, aggiungeva, è che «la crescita dell’apparato scientifico-tecnologico rende sempre più difficile la sopravvivenza del senso del limite». Riflessioni risalenti agli anni 60 del secolo scorso ma drammaticamente attuali. La tecnologia, ad esempio, è entrata prepotentemente anche nelle investigazioni giudiziarie, aumentandone l’efficacia ma con tutto il suo potenziale di invasività nella sfera della libertà personale. Prove finora confinate in un solo articolo del Codice di procedura penale (189), e denominate “atipiche” perché non disciplinate, oggi sono, o stanno diventando, ordinari strumenti investigativi proprio per l’incessante sviluppo tecnologico. Ma il “senso del limite” va di pari passo? «Le potenzialità di questa nuova frontiera investigativa sono diventate così ampie, pervasive e sofisticate che soltanto la legge può fissarne i giusti confini, garantendo effettivamente una sfera di inviolabilità assoluta agli onesti e sfruttandole, invece, contro la grande criminalità organizzata di matrice mafiosa e terroristica», risponde Nello Rossi, avvocato generale presso la Procura della Cassazione, leader storico di Magistratura democratica, approdato al Palazzaccio dalla Procura di Roma dove, come aggiunto, ha coordinato i pool sui reati economici e informatici.

Le prove atipiche
Da decenni si discute di intercettazioni telefoniche e di bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco (accertamento delle responsabilità penali, privacy, informazione). Ma “quel” dibattito è già superato rispetto alle potenzialità delle nuove tecnologie investigative, che consentono di captare suoni, immagini, dati. Ovunque. È il caso degli ormai famosi Trojan, i virus informatici che trasformano gli apparecchi con i quali conviviamo abitualmente – smartphone, tablet, pc – in altrettanti agenti captatori di tutte le nostre comunicazioni, scritte, sonore, visive. Ma è anche il caso dei pedinamenti elettronici mediante localizzatori satellitari, dell’individuazione degli spostamenti attraverso le celle telefoniche, delle intrusioni nei social network e così via. Per non parlare delle indagini sui corpi: dagli accertamenti coattivi radiologici all’alcool test, dall’esame tossicologico al prelievo di campioni organici magari all’insaputa dell’interessato, com’è accaduto nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, dove Massimo Bossetti è stato incastrato dall’esame del Dna su un campione organico prelevato a sua insaputa durante un controllo di polizia nel quale era stato sottoposto ad alcol test.

L’incubo del Grande fratello
Ecco, è questa la “nuova frontiera delle investigazioni”. Rassicurante e però inquietante. Indispensabile contro la minaccia del terrorismo e, quindi, per la sicurezza collettiva, ma tale da giustificare anche psicosi collettive da Grande fratello o, più semplicemente, da compromettere gravemente la libertà personale, non solo di chi è oggetto di indagine. «Libertà e dignità della persona sono i limiti rigorosi e invalicabili nell’impiego di queste tecnologie e dei loro risultati. E ciò reclama grande professionalità e connessa assunzione di responsabilità per tutti coloro che le maneggiano: polizia giudiziaria, pm, giudici. Ma anche avvocati. E giornalisti» osserva Rossi. Che senza mezzi termini aggiunge: «A fronte di mezzi così invasivi, persino della sfera più intima, non ci si venga poi a raccontare che c’è un interesse pubblico a diffondere anche dati penalmente irrilevanti».

Rossi ha rappresentato la Procura generale davanti alle sezioni unite della Cassazione quando si è discusso dei Trojan. Ne ha sostenuto l’utilizzabilità, ma solo per i reati della grande criminalità organizzata mafiosa e terrorista mentre la Corte li ha ritenuti applicabili a una più ampia sfera di associazioni a delinquere, fortemente strutturate, finalizzate alla commissione di tutti i reati, compresa quindi la corruzione. Una decisione che ha fatto discutere, tant’è che a fine luglio un appello di giuristi, partito dall’Università di Torino, l’ha definita «creativa» e ha sollecitato il legislatore a intervenire in questa delicatissima materia. L’appello non è caduto nel vuoto: al Senato – dove si sta esaminando il ddl di riforma del processo penale – l’emendamento sui Trojan presentato dai relatori Casson-Cucca (Pd) che inizialmente seguiva la Cassazione è stato poi riformulato restringendo l’elenco dei reati a mafia, terrorismo e a quelli associativi finalizzati al traffico d’armi, di esseri umani, di droga. Con esclusione, quindi, di altri reati pur gravi, come la corruzione.

«Per quanto grave e inquietante sia il fenomeno della corruzione, è legittimo, a mio avviso, che il legislatore scelga di escludere in quest’ambito l’uso dei captatori informatici e consenta invece le “ambientali” classiche, autorizzabili dal giudice nei luoghi di privata dimora solo se c’è motivo di ritenere che lì si stia svolgendo l’attività criminosa. Infatti –ragiona Rossi – mentre per mafiosi e terroristi si può presumere che si muovano e agiscano in contesti pressoché “integralmente” criminali, i corrotti vivono in ambienti ben più eterogenei; e il rischio di renderli, tramite i virus informatici, vettori di strumenti capaci di intercettare indiscriminatamente una pluralità di domicili privati di persone totalmente estranee alle indagini potrebbe risultare altissimo e intollerabile».

Deterrenza durissima
Ma, anche restringendo il campo d’azione delle nuove tecnologie investigative, resta il problema della loro gestione. E la preoccupazione di un uso non sempre professionale della massa di informazioni raccolte non può essere liquidata con disinvoltura. Su questi temi la Scuola della magistratura ha già in programma, a ottobre, un corso di formazione.
Rossi insiste sul ruolo della legge e sulla professionalità e correttezza degli operatori nonché sulla «durissima deterrenza, anche con nuove norme incriminatrici, nei confronti di chiunque riveli o divulghi illegittimamente le informazioni che non servono al processo: semplicemente, deve andare in prigione». Detto questo, non si può rinunciare ai nuovi mezzi di ricerca della prova, che «in molti casi consentono un puro e semplice “recupero” dell’efficacia investigativa perduta dalle intercettazioni tradizionali». Com’è noto – spiega – «una serie di canali di comunicazione di larghissimo uso – WhatsApp, Telegram ecc – promettono agli utenti l’assoluta impenetrabilità grazie a tecniche di criptazione dei messaggi e di loro immediata distruzione, il che li rende impermeabili alle intercettazioni tradizionali. Serve di più. Ad esempio, di fronte alla sconvolgente novità di un terrorismo che ci è ancora in larga misura ignoto, l’esile filo di un numero di cellulare può portare a risultati di grande valore».

Ecco allora che le indagini e le prove “atipiche” (quelle «non disciplinate dalla legge») vengono in aiuto sia pure con lo sbarramento previsto dallo stesso articolo 189 Cpp di «non pregiudicare la libertà morale della persona». «Se guardiamo alla realtà dei fatti, il ricorso a indagini e prove atipiche ha assunto un rilievo eccezionale» spiega Rossi. Ma sono sempre così indispensabili? E anche a prezzo di mettere a repentaglio la libertà di comunicazione e la privacy di molti altri? «O si accetta che i messaggi dei mafiosi, dei terroristi, dei trafficanti di esseri umani e di droga possano correre indisturbati su alcuni canali informatici o si cerca di intervenire in questa inquietante realtà. Il vero nodo resta quello della severa gestione dei risultati e della rapida distruzione di tutto ciò che è irrilevante».
Il sistema non è privo di anticorpi. Anzitutto, i risultati di queste indagini devono essere valutati dal giudice e il suo “libero convincimento” resta un pilastro insuperabile; in secondo luogo, ci sono limiti invalicabili nell’acquisizione di queste prove, esplicitati in parte dalla legge e in parte dai principi dell’ordinamento giuridico. «E c’è un limite generale ed estremo alle indagini ed alle prove atipiche rappresentato dal rispetto della dignità umana», chiosa Rossi. «Se alcune captazioni fossero effettuate con modalità tali da ledere la dignità della persona, dovrebbero essere dichiarate inutilizzabili nei processi».

Il fattore umano
Alla fine conteranno gli uomini. «Che dovranno controllare e “controllarsi” sia nel decidere se ricorrere allo strumento investigativo sia nel fissarne le modalità operative sia nel gestire gli spesso sconvolgenti risultati probatori. La legge può e deve dire molto al riguardo ma inevitabilmente non potrà dire tutto, anche per l’incessante evoluzione delle tecnologie. A integrare il dettato normativo dovrà esserci perciò il fattore umano, la responsabilità delle persone che, nella ricerca delle prove, dovranno avere come imperativo categorico il rispetto dei diritti degli indagati e ancor più dei soggetti estranei occasionalmente coinvolti. E questo vale moltissimo anche per la pubblicità delle informazioni raccolte». E se qualche applicazione disinvolta delle nuove tecniche dovesse dare corpo all’incubo del Grande fratello? «Sarebbe un vero e proprio boomerang. Ci sarebbe una legittima e comprensibile reazione collettiva destinata a pregiudicare l’accettazione sociale di questi strumenti».

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