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Se il welfare agli immigrati diventa una minaccia

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Global view

Se il welfare agli immigrati diventa una minaccia

Da un sondaggio di opinione condotto da YouGov il giorno stesso del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea si è appurato che secondo i sostenitori del “Leave” l’immigrazione era il problema più sentito e importante in assoluto, secondo solo a una generica preferenza per l’indipendenza in sé. Quanti considerano xenofobi gli elettori favorevoli alla Brexit in ogni caso travisano completamente la natura del problema. Grazie al Commonwealth, il Regno Unito è uno dei paesi dalla mentalità più aperta al mondo. E accusare i britannici, tra tutti i popoli, di essere xenofobi è assurdo.
In verità, l’esito del referendum riflette le legittime critiche al progetto dell’Ue, in buona parte basato su frontiere aperte verso il mondo esterno e su un mix di libertà di circolazione e del cosiddetto principio di inclusione a livello interno. L’Ue dovrebbe usare il voto britannico di non fiducia come un’occasione per cambiare radicalmente le sue leggi al riguardo del fenomeno migratorio.
L’ex Primo ministro del Regno Unito David Cameron ha avuto ragione a esigere maggiori concessioni per limitare la libera circolazione dei cittadini dell’Ue. E, nel suo stesso interesse, l’Ue dovrebbe adesso mettere in pratica ciò che Cameron chiedeva: un rinvio dell’integrazione dei lavoratori migranti dell’Ue nei welfare system dei Paesi ospitanti. Se l’Ue non eliminerà l’attuale calamita costituita dal welfare, si disintegrerà, perché la questione del fenomeno migratorio è ciò che sta maggiormente a cuore ai cittadini di buona parte dell’Unione. I partiti politici che negano questo dato di fatto vanno incontro a uno shock assai sgradevole.
Il problema fondamentale è un irrisolvibile trilemma. È impossibile soddisfare tutti e tre questi obiettivi dell’Ue: libertà interna di circolazione, welfare state, inclusione dei migranti nei sistemi della previdenza sociale dei Paesi ospitanti.
Oggi un cittadino dell’Unione europea che si trasferisce in un altro paese dell’Ue sarà integrato assai rapidamente nel suo sistema della previdenza sociale. Quanti non saranno in grado di lavorare al massimo dopo cinque anni avranno pieno diritto a ottenere sussidi previdenziali finanziati dalle entrate fiscali. Un più precoce accesso a questi vantaggi è solo questione di leggi nazionali e, in qualche caso, di giurisdizione.
In Germania, secondo una decisione della Corte sociale federale tedesca, i cittadini dell’Ue che cercano un’occupazione ma non la trovano hanno immediatamente diritto ai sussidi Hartz IV (di disoccupazione e di previdenza), all’assicurazione sanitaria gratuita, al pagamento dell’affitto di alloggi ritenuti adeguati. Hanno altresì diritto a sussidi per l’infanzia per tutti i loro figli, anche se questi ultimi vivono ancora nel loro Paese, affidati, per esempio, ai nonni. Quanto ai lavoratori autonomi, hanno immediatamente diritto ai sussidi supplementari previsti dall’Hartz IV, tra i quali le detrazioni per le spese di alloggio e benefit per la prole (che per una famiglia che ha cinque figli possono arrivare a 1018 euro al mese, una cifra di gran lunga superiore allo stipendio netto medio di un operaio in Bulgaria o in Romania).
Se non cambieranno, le regole per l’accesso ai sistemi della previdenza nazionale eroderanno i welfare state dell’Ue, perché i Paesi più generosi si accolleranno sempre più spesso la fetta maggiore delle spese di coloro che migrano per povertà. I welfare state meglio sviluppati, dove accorrono i più indigenti, potrebbero quindi trovarsi invischiati in una rovinosa concorrenza per la deterrenza, con le popolazioni locali che potrebbero scendere in strada a difendere i “loro” benefit.
Un simile esito può essere scongiurato soltanto limitando o la libertà di circolazione oppure il principio di inclusione. Di conseguenza, l’Ue deve riconoscere il compromesso tra la qualità del sistema di previdenza statale, la libertà di circolazione e l’inclusione. E poi deve decidere quale dei tre sacrificare.
L’opzione migliore consisterebbe nel limitare il principio di inclusione ai migranti dall’Ue, perché ridurre il raggio d’azione e le dimensioni del welfare state potrebbe innescare una forte instabilità sociale. Limitare la libertà di circolazione, invece, equivarrebbe a violare una delle libertà fondamentali dell’Ue.
Limitare il principio di inclusione non dovrebbe costituire un problema, dato che tutti i Paesi dell’Ue soddisfano i requisiti dell’Acquis comunitario (l’insieme delle normative dell’Ue), e garantiscono un minimo di tutele sociali. Di conseguenza, nel caso di benefit previdenziali non guadagnati – benefit finanziati dal fisco e da contributi vari, assicurati durante i primi anni di residenza in un nuovo Paese – il principio di inclusione dovrebbe cedere il passo al principio del Paese d’origine. Nei Paesi ospiti, agli immigrati si dovrebbero garantire soltanto i benefit guadagnati in un sistema assicurativo che preveda premi correlati ai costi.
Ma c’è dell’altro: l’Ue farebbe bene a chiudere le sue frontiere esterne. Il suo mercato del lavoro, le sue infrastrutture, il suo sistema legale e i suoi benefit previdenziali rappresentano preziosi beni associativi che non dovrebbero essere accessibili a migranti economici qualsiasi, provenienti da ogni parte del mondo. Chi crede che una società liberale richieda confini aperti non capisce che la tutela della proprietà è un requisito imprescindibile della libertà.
Nonostante ciò, sussiste ancora l’imperativo umanitario a concedere asilo alle persone perseguitate per le loro idee politiche e a includerle nel welfare system. Separare i pochi individui (appena lo 0,7 per cento di tutte le richieste di asilo esaminate in Germania) che rientrano in questa categoria dai migranti per ragioni economiche richiede sistemi con i quali raccogliere le richieste, e la realizzazione di campi di accoglienza, se necessario, dove tali decisioni possano essere prese fuori dai confini dell’Ue.
Coloro che prestano attenzione soltanto alla rabbiosa retorica nazionalista, ascoltata a margine della campagna del Regno Unito per il Leave, non vedono la realtà nel suo complesso. Se l’Ue non abbandonerà il principio di inclusione, quella retorica si farà sentire sempre più stentorea. E altre uscite dall’Unione diventeranno inevitabili.
Traduzione di Anna Bissanti
Hans-Werner Sinn, professore di Economia all’Università di Monaco, è stato presidente dell’Ifo Institute for Economic Research e fa parte del Consiglio dei consulenti del Ministro tedesco dell’economia.
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