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Uscire dalla logica del respiro corto

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L'Editoriale|LA LEZIONE DEL DOLORE

Uscire dalla logica del respiro corto

Di fronte a un evento tanto tragico quale è stato l'ultimo terremoto, il primo ministro Matteo Renzi ha evocato la necessità di un piano per l'Italia. Un programma pluriennale di intervento edilizio che limiti i danni e i costi futuri dei dissesti naturali. È una buona formula a cui il nostro Paese non è abituato e che non va sprecata come un escamotage comunicativo. Da decenni la conflittualità comprime l'orizzonte e i tempi della politica. Fa parte di questa fibrillazione una visione solamente emotiva della realtà, spesso condivisa dai media, che rende labile l'impegno collettivo. Un sindaco dei comuni colpiti ha svelato questo timore denunciandolo fin dalle prime ore: «Tra poche settimane ci avrete dimenticati». Pagare ogni cinque anni i costi di ricostruzione di un terremoto, secondo emergenza ed emotività, è considerato più consono al carattere italiano che non investire ogni anno, prelevando regolarmente le tasse, per la prevenzione. Questa logica del respiro corto deve cambiare.

Uno studioso americano definiva la politica come lo studio di «chi ottiene cosa, come e quando». Il «chi» e il «cosa», cioè l'aspetto distributivo, ha dominato la pratica della politica, prima in ragione del conflitto di classe, poi confondendosi nelle tecniche elettoralistiche che favoriscono alcuni votanti rispetto agli altri e ora negli acrimoniosi negoziati tra Stati dell'Unione europea. Sul «come» discutono solo i tecnici. Quasi nessun'attenzione è dedicata invece al «quando», cioè all'ipotesi che i benefici delle politiche lungimiranti siano rinviati nel tempo rispetto ai costi.
Che si debba cioè investire più che elargire, trattando gli elettori come adulti e non come infanti. Eppure, la logica intertemporale riguarda i campi più importanti delle politiche pubbliche, a cominciare dall’istruzione e dalla cura dei bambini, dall’immigrazione ai sistemi pensionistici fino, ovviamente, alla prevenzione dei disastri e alla cura delle risorse naturali.
Scelte di lungo termine, che scavalcano le legislature e che richiedono in alcuni ambiti una riflessione condivisa sul futuro sono essenziali alla sopravvivenza di un paese. Se una riforma costituzionale è necessaria, ne dovrebbe far parte allora un’innovazione che preveda forme esecutive di lungo termine ingaggiando in modo nuovo i poteri legislativo e giudiziario.

Ma il tema delle politiche trasformative del paese è in buona parte anche il problema del rapporto tra Italia ed Europa che oggi si esaurisce inutilmente nei negoziati sulla flessibilità. L’idea di stabilità, sinonimo di lungo-termine, era il concetto fondativo dell’unione monetaria europea perché su di essa poggiavano le basi del benessere secondo Walter Eucken e Alfred Müller-Armack, gli ideatori dell’economia sociale di mercato. Le stesse riforme Schröder, a cui viene (sbrigativamente) attribuito il grande successo dell’economia tedesca, avevano un orizzonte decennale. Ma con la crisi e con gli egoismi nazionali, la governance dell’euro, che nelle intenzioni doveva rappresentare un programma di stabilizzazione del quadro politico, si è trasformata in un meccanismo di emergenze ed aggiustamenti di breve termine.
Un piano decennale per l’Italia dovrebbe essere il tema di confronto in Europa. Non può essere che la sede di un programma di ampio respiro sia solo nei programmi di assistenza che scattano sull’orlo dei default. Bisogna riconoscere che il sistema di governance attuale non funziona. Ci sono risorse europee che vanno utilizzate prima che i disastri avvengano e prima che subentri lo scontro tra vittimismi nazionali.

Negli ultimi due anni la logica punitiva delle regole europee è stata attenuata. L’implementazione della governance macroeconomica è diventata più pragmatica e meno ideologica. Le procedure sono state sostituite da “monitoring specifici” per i paesi con squilibri eccessivi e ci si è affidati alla “pressione reciproca” tra governi per stimolare comportamenti più virtuosi. Il “semestre europeo” che disciplina le politiche economiche nel 2016 ha puntato meno sul rigore dei conti e più sulla rimozione degli ostacoli agli investimenti, sull’efficienza della pubblica amministrazione, sulla riduzione del carico dei regolamenti per le imprese nei servizi e nelle reti e sulla riforma dei regimi di insolvenza. Ma i risultati non sono stati buoni: il rispetto delle “raccomandazioni specifiche” della Commissione è calato negli ultimi due anni rispetto al biennio precedente. L’implementazione della direttiva sui servizi è stata a dir poco deludente nei paesi più grandi. I divari di produttività tra i paesi restano ampi e talvolta si ampliano. In termini di bilancio strutturale, l’Italia è uno dei paesi che hanno approfittato con troppa disinvoltura dei nuovi margini. Abbiamo realizzato politiche pro-cicliche che hanno eroso i margini fiscali per assorbire un’eventuale recessione e che non hanno assicurato la riduzione del debito pubblico. Dati i risultati della crescita italiana è difficile convincersi che l’approccio più morbido delle regole europee – dopo anni di approccio troppo rigido – stia funzionando. I tempi per la resa dei conti, che coinciderà con l’aumento dei tassi d’interesse in Europa, si stanno accorciando. Per questo bisogna pensare da subito in modo diverso.

La lezione del dolore di questi giorni è di governare “guardando lungo”. Il piano per l’Italia può avere ambizioni che vadano oltre la risistemazione degli edifici e riguardare l’intero funzionamento del paese. Dalla macchina amministrativa, al recupero di regioni che perdono il contatto con la legalità e l’economia. Un quadro ambizioso e saldo darà la certezza che manca agli investitori per credere nel paese. C’è molto da fare per le menti più innovative del paese. Si può concordare con i partner europei un piano di trasformazione di lungo termine per il paese, prima che siano i mercati a imporcelo con la loro caratteristica brutalità.

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