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Se il G20 cinese non è stato solo utopia

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l’editoriale

Se il G20 cinese non è stato solo utopia

Il G20 a presidenza cinese tenutosi a Hangzhou nei giorni scorsi è stato da molti commentato per la sua debolezza in termini di accordi vincolanti tra i 20 maggiori Paesi sviluppati e per i contrasti irrisolti tra Russia e Usa. Troppo poco credito si è dato invece alla decisa spinta cinese, con manifesta aspirazione a leadership, nella diagnosi di una situazione mondiale piena di squilibri e diseguaglianze che richiedono azioni concrete e di lunga durata. Troppi hanno invece considerato questi indirizzi come “genericità” o “parole” quando non addirittura “chiacchiere”. È una visione scettica o rassegnata per non dire cinica nella misura in cui attribuisce implicitamente ai leader del G20 di considerare le preoccupazioni sulle diseguaglianze come espressioni di circostanza senza alcuna possibilità di rimedi. Oppure è la convinzione implicita che contano solo le forze prevaricanti ovvero la violenza purché legalizzata, con questo non riconoscendo quanto hanno fatto nel secolo XX per il bene dell’umanità leader pacifici ma forti, visionari ma determinati, idealisti ma concreti. Si pensi a Gandhi per la fine del colonialismo, a Martin Luther King per la fine delle segregazioni raziali in Usa, a Papa Karol Wojtyła per la fine dell’impero sovietico. La loro capacità fu anche quella di cogliere il momento storico per orientarlo al bene comune. Anche i grandi leader politici, come Roosevelt e Churchill, che dovettero usare la forza delle armi per sconfiggere il nazismo, erano guidati da ideali come lo erano i fondatori della Comunità europea. Questa capacità di unire valori ed ideali con scelte e politiche è un paradigma esemplare che nel XXI secolo può essere praticato non da singoli leader ma da organismi collegiali sovranazionali e mondiali. Il G20 è uno di questi e perciò va valorizzato.

Il consensus cinese e l’Onu

A nostro avviso la Cina ha scelto di presiedere il G20 non come la seconda economia mondiale ma come la prima tra quelle dei Paesi emergenti e in via di sviluppo, con una storia che da un lato ha praticato con successo una strategia per uscire dalla povertà e che dall’altro vuole mantenere un rapporto di collaborazione stretta con il sud del pianeta.

In altre parole la Cina si è posta come espressione del Sud che chiama tutti a una scelta di sviluppo sostenibile costruita sul partenariato pubblico-privato e con orizzonti di investimento di lungo periodo. Eloquente è l’affermazione del presidente cinese Xi Jinping: «La crescita è per i popoli, deve essere raggiunta dai popoli, deve essere distribuita tra i popoli».

Questa è la tonalità su cui leggere il comunicato finale del G20 che inizia definendo lo «Hangzhou Consensus». Superando la tentazione di confrontarlo o contrapporlo allo «Washington consensus» (che nel 1989 ispirò in termini fortemente neo-liberisti l’Fmi e altri organismi internazionali per contrastare le crisi dell’America Latina) si vede notare la grande distanza da allora a oggi, con la Cina che ottiene una condivisione politicamente impegnativa su questo obiettivo: spingere l’economia mondiale su una traiettoria innovativa, invigorita, interconnessa, inclusiva per portarla in una nuova era di crescita globale sostenibile secondo le indicazioni dell’Agenda 2030 dell’Onu, dell’Agenda di Azione di Addis Abeba, dell’Accordo di Parigi Cop 21.

Sono tre momenti di visione e di azione approvati da circa 190 Paesi nelle tre Conferenze internazionali del 2015. Sono agende umanitarie che sulle cinque priorità (Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partnership) e partendo dai risultati (che ci sono stati e non solo in termini di riduzione della povertà) dei «Millennium development goals» fissati dall’Onu nel 2000, indicano gli obiettivi e le strategie per i prossimi 15 anni con il fine primario di eliminare la povertà assoluta attraverso l’integrazione e l’inclusione economica, sociale e ambientale dei Paesi meno sviluppati.

I “realisti” diranno, ancora un volta, che si tratta di utopie. Lo sarebbero se si pensasse che basta distribuire le risorse prodotte altrove mentre bisogna imparare a produrle se si vuole che con le stesse si crei un benessere diffuso e durevole. È con questa sfida che siamo chiamati a fare i conti di fronte alla crisi dei migranti che sta investendo in pieno l’Europa con conseguenze visibili nei loro inizi e imprevedibili nei loro esiti.

Investimenti, industria, innovazione

Nello «Hangzhou Consensus» ci sono ben 47 punti che non tralasciano alcun aspetto dello sviluppo e della cooperazione allo sviluppo.

Tra questi ne evidenziamo alcuni che corrispondono anche a una traiettoria costante del nostro ragionare su queste colonne. Ovvero la necessità di una riscossa dell’economia reale con investimenti e innovazione, istruzione ed equità per evitare o la grande stagnazione secolare o delle spaccature politico-sociali dirompenti o entrambe le evenienze, di cui la prima riferita ai Paesi sviluppati e la seconda ai rapporti Nord-Sud.

Il primo messaggio in tale direzione del G20 è che se per riattivare crescita di breve periodo è necessario un rilancio della domanda globale, per la crescita di medio-lungo termine bisogna agire sui due lati della offerta e della domanda tramite investimenti e aumenti di produttività in modo da spingere la crescita potenziale e meglio distribuirla su scala globale.

Il secondo messaggio riguarda l’innovazione che deve essere utilizzata e diffusa appieno stante il potenziale della «nuova rivoluzione industriale» e del «G20 Blueprint on Innovative Growth» dove le tecnologie emergenti vengono chiamate per nome (dai Big Data al cloud computing, dalle nanotecnologie alle biotecnologie) dando così la concretezza a quanto già in atto rispetto ad una promessa.

Il terzo messaggio è che ci vogliono delle partnership multi-dimensionali per sostenere i Paesi in via di sviluppo nel creare capitali umani e competenze in grado di entrare in questa nuova fase di sviluppo mondiale e per evitare nuovi divari.

Troppi divari

Nei commenti a margine del comunicato finale del G20 una affermazione di Christine Lagarde è il modo migliore per spiegare il senso e il progetto del summit: «La crescita è stata troppo bassa e troppo a lungo è andata a vantaggio di troppo pochi».

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