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Se l’Europa manda in tilt la politica commerciale

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l’editoriale

Se l’Europa manda in tilt la politica commerciale

Ma l’Europa da crescita scarsa e alti livelli di disoccupazione, dove un occupato su sette vive e dipende dall’export, può permettersi di scherzare e magari anche di fare a pezzi la sua politica commerciale, cioè la chiave per procurarsi nuovi mercati di sbocco?

Può sembrarlo ma la domanda non è retorica. Quando i governi restano profondamente divisi e la pubblica opinione appare indifferente agli enormi surplus produttivi e alle vendite in dumping della Cina che mettono in croce l’industria europea e relativi posti di lavoro ma si mobilita nelle piazze per fermare a gran voce il Ttip, il patto transatlantico con gli Stati Uniti, o bloccare il Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada, viene il sospetto che in Europa non si riesca più a discernere tra interessi ed emozioni, si perda di vista l’interesse generale per cadere nella trappola del puro autolesionismo. In balia di pulsioni no global a corrente alterna, di nostalgie di muri e frontiere-rifugio, di farneticazioni sulla decrescita felice che alla prova dei fatti felice non è.

Tutti i negoziati commerciali sono partite complesse, un gioco di do ut des e di equilibri difficili tra diverse posizioni di forza. Però quando Stati Uniti ed Europa insieme fanno ancora il 50% del Pil mondiale e il 40% del potere di acquisto, un interscambio da 5 trilioni di dollari all’anno, con i primi che ricavano il 57% dei rispettivi profitti societari nell’Ue e questa il 56% dei suoi investimenti esteri diretti.

Quando insieme vantano un mercato di 800 milioni di consumatori ad alto potere d’acquisto, elevati tassi di innovazione tecnologica e sono in grado di fissare standard e norme mondiali. Quando la maggior parte degli studi concorda nel prevedere che, tempo 15-20 anni, nessun Paese europeo (oggi sono 4, Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia) comparirà nel club delle 7 maggiori economie globali, nessuno dovrebbe dubitare dell’importanza strategica del Ttip per tutto l’Occidente, unico contrappeso efficace e credibile all’ascesa degli emergenti, Cina in testa.

Entro fine anno si decideranno il destino del patto con gli Stati Uniti, con il Canada e il rapporto con la Cina. Il Ttip appare a forte rischio: in tre anni i progressi negoziali sono stati scarsi, gli europei temono la svendita dei rispettivi alti standard alimentari, sociali e ambientali senza concessioni sull’apertura del mercato Usa di servizi e appalti pubblici. Un accordo garantirebbe invece agli americani il libero ingresso sul mercato unico europeo, stesse regole e standard nei suoi 28 Paesi, mentre i prodotti Ue dovrebbero continuare a sostenere test e costi di certificazione per un terzo dell’export in Usa.

La Francia auspica lo stop delle trattative. Forti resistenze si registrano in Germania, Austria, Olanda e Belgio. Se non sarà chiuso entro l’anno sotto presidenza Obama, il Ttip potrebbe finire su un binario morto: tanto Hillary Clinton quanto Donald Trump appaiono sensibili alle sirene del neoprotezionismo. Se le distonie euro-americane finora inconciliabili possono spiegare lo scarso entusiasmo di molti, l’attacco al Ceta appare incomprensibile e pretestuoso: l’Europa ha ottenuto dal Canada tutto quello che chiede ma si vede rifiutare dagli Stati Uniti, compresa la protezione di 140 indicazioni geografiche.

Ufficialmente le riserve sono “democratiche”: no alla ratifica esclusivamente europea dell’accordo, che dovrebbe essere firmato in ottobre, e invece ratifiche nazionali e pure regionali, 38 in tutto. Per l’entrata in vigore definitiva, e non solo provvisoria (possibile), ci vuole l’unanimità. Incidenti di percorso sono in agguato: Romania e Bulgaria pretendono la liberalizzazione dei visti per i loro cittadini prima di ratificare il Ceta.

Se i patti transatlantici e tutte le loro promesse concrete e futuribili viaggiano dunque in alto mare, paradossalmente l’intesa con la Cina appare molto più vicina. Per evitare di pronunciarsi entro dicembre, come previsto dagli accordi Wto, sul suo status di economia di mercato, che Pechino non è, Bruxelles ha pensato bene di eliminare la definizione, annunciando per fine anno una proposta per rafforzare gli strumenti Ue di difesa commerciale, antidumping in primis.

Peccato che, almeno finora, i tentativi di riforma non siano andati lontano e comunque richiedano mesi per andare in porto.

Nel frattempo i segnali di apertura dei cinesi per una certa autodisciplina sull’export di acciaio potrebbero essere il prezzo per indurre l’Europa a chiudere un occhio su altri settori, come chimica, alluminio, biciclette, vetro, ceramica, componenti auto e biciclette, tutti vittime dei surplus produttivi cinesi e tutti estremamente sensibili per il futuro della manifattura italiana.

Tradizionalmente una buona politica commerciale costituisce il braccio armato di un’efficace strategia di sviluppo. La confusione in cui oggi si trascina è anche uno dei pesanti danni collaterali della crisi strutturale che sta erodendo il progetto Europa.

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