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Le élite del No e il futuro dell’Italia

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Le élite del No e il futuro dell’Italia

Era necessario che il premier Renzi si auto-criticasse per aver personalizzato il referendum sulla riforma costituzionale. Necessario ma non sufficiente. Infatti, la discussione e la battaglia sulla riforma costituzionale si svolgeranno nel merito della proposta solamente se anche gli altri leader politici eviteranno di personalizzare quel referendum.

Ma così non è. Probabilmente, ciò è dovuto all’istituto del referendum in quanto strumento di democrazia diretta. Il referendum è come un’anguilla. Anche il più esperto pescatore non riesce a trattenerla nelle mani. C’è nel referendum una logica intrinseca alla politicizzazione intesa come personalizzazione. Contrariamente a ciò che viene sostenuto da più parti, il referendum non è lo strumento per far emergere il volere del popolo, inteso come un’entità unitaria, distinto da quella delle élite politiche. Al contrario, il referendum si è dimostrato regolarmente lo strumento per avviare un regolamento di conti all’interno delle élite stesse. L’idea che ci sia un popolo che, attraverso il referendum, può finalmente esprimersi contro le élite è tanto ingenua quanto infondata. Lo stesso concetto di populismo, se utilizzato come un “passe-partout” per spiegare il malessere dei cittadini, crea più confusione che consapevolezza. La politica è sempre uno scontro tra élite, mai tra il popolo e queste ultime. Non ci sarebbe il populismo senza élite capaci di mobilitare i sentimenti di insoddisfazione diffusi in larga parte del popolo. Sono dunque le élite a essere responsabili di un esito politico o di un altro. Non il popolo.

Il voto a favore della Brexit, nel referendum britannico del 23 giugno scorso, non è stato l’espressione di una ribellione popolare nei confronti delle tecnocrazie di Bruxelles, ma un vero e proprio regolamento di conti all’interno del partito conservatore (in particolare tra Boris Johnson e David Cameron), oltre che tra una élite sovranista esterna ai partiti (rappresentata da Nigel Farage) e le leadership ufficiali dei maggiori partiti. Il voto contro il Trattato Costituzionale dell’Unione Europea, nel referendum francese del 29 maggio 2005, non fu l’espressione del malessere dei francesi contro la visione sovranazionale europea, bensì l’occasione per regolare i conti all’interno del partito gollista (del presidente allora in carica Jacques Chirac) oltre che all’interno del partito dell’opposizione (tra Francois Hollande and Laurent Fabius). La stessa logica si è manifestata nel referendum olandese del 1 giugno 2005, sempre sul Trattato Costituzionale dell’Ue, quando la contrapposizione ha seguito quasi-linearmente la divisione tra la coalizione di governo (a favore del Sì) e i partiti dell’opposizione (schierati per il No). Una logica simile si è manifestata nei referendum irlandesi sul Trattato di Lisbona, del 12 giugno 2008 (in cui il Trattato fu bocciato) e del 2 ottobre 2009 (in cui lo stesso Trattato fu invece approvato), referendum utilizzati da leader politici esterni al governo per mettere in difficoltà quest’ultimo. Potrei continuare.

Queste esperienze referendarie hanno in comune due aspetti. Primo, il referendum è diventato un sostituto delle elezioni politiche generali o delle stesse primarie di partito per definire i rapporti di forza tra gruppi di élite politiche o tra i loro leader. Secondo, il referendum, proprio per la sua natura binaria (Sì o No relativamente a una data proposta), consente a élite negative di avere un vantaggio posizionale rispetto alle élite positive. È molto più facile fare una campagna contro, che farla a favore. Tanto è vero che quando le élite negative vincono, e quasi sempre vincono nelle arene referendarie, il risultato è lo stallo se non la confusione. Brexit ha vinto, ma nessun sa nel Regno Unito come realizzare l’uscita del Paese dall’Ue. La bocciatura del Trattato Costituzionale ha vinto a Parigi e a L’Aia, ma il risultato è stato la paralisi dell’Ue che ancora non è stata risolta. Per quanto riguarda gli irlandesi, hanno dovuto smentire sé stessi per non rimanere esclusi dal processo di integrazione. Insomma, il referendum deresponsabilizza gli oppositori, che possono mobilitarsi per fare votare contro la proposta in discussione, senza essere obbligati a precisare con che cosa la sostituirebbero. Un esempio, per dirla con Francois Furet, di opposizione parassitaria.

Naturalmente, dietro i successi delle élite negative vi erano condizioni sociali ed economiche di malessere e insoddisfazione, ovvero disorientamenti culturali dei cittadini sull’identità del proprio Paese o del proprio gruppo. Ma quelle condizioni e stati d’animo possono essere rappresentati in modi diversi. In una democrazia rappresentativa, attraverso programmi realizzabili, anche se radicali. Le élite negative, invece, si limitano a utilizzare il semplicismo della democrazia diretta per mettere in difficoltà o per delegittimare chi governa. E nel fare questo, per loro, la coerenza non ha importanza. Succede così di vedere che, nel referendum costituzionale italiano, tra i leader che vogliono bocciare il progetto vi sono un ex-presidente di una commissione bicamerale che aveva approvato un progetto di riforma costituzionale molto più audace e sistemico di quello oggetto di votazione. Oppure un ex-ministro delle riforme istituzionali che ha presieduto una commissione di studio da cui il progetto Renzi-Boschi deriva, al punto da averlo votato più volte in Parlamento (durante le tre fasi costituzionalmente richieste per l’approvazione). Anche qui, potrei continuare. In tutti questi casi, le élite negative non hanno la preoccupazione di precisare cosa succederebbe in caso di una loro vittoria, qual è il loro progetto alternativo, quali le possibilità di realizzarlo. La logica referendaria non lo richiede. La rivalità che li anima glielo proibisce. Il punto è usare il referendum per portare avanti una guerra di liberazione contro il nemico.

Se è stato necessario che Renzi smettesse di parlare del suo futuro, ciò non sarà sufficiente se le componenti più responsabili delle élite politiche italiane non si mobiliteranno per fare del referendum un’occasione di educazione pubblica e non già di regolamento dei conti tra governo e opposizione. Il futuro di un Paese dipende dalla qualità delle sue élite. È stata l’irresponsabilità delle élite argentine che ha portato quel Paese, ricco di risorse, a un declino economico e politico quasi-irreversibile. È la faziosità delle élite politiche statunitensi che sta portando quel Paese a una paralisi politica che ricorda il dramma della Guerra Civile. Nessun Paese ha, per dono naturale o divino, delle élite politiche responsabili. La responsabilità delle élite politiche è un bene pubblico che va perseguito senza ambiguità. Ad esempio, non smettendo mai di ricordare a chi governa e a chi si oppone che, nel referendum costituzionale del prossimo autunno, vi saranno in gioco gli interessi del Paese e già non il destino personale di alcune élite.

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