In inglese esiste un’espressione, wishful thinking, che indica una concezione basata su di un «travisamento ottimistico della realtà», per cui basta enunciare un proposito, perché esso si realizzi. In apertura dell’anno scolastico, mi verrebbe di dire che i decisori politici italiani sono dei maestri del wishful thinking, instancabili nel riproporre soluzioni salvifiche senza tenere conto della realtà, senza valorizzare le esperienze positive e senza accettare che le trasformazioni del sistema educativo non avvengono né in un giorno né in un anno. Tuttavia, quando la «Buona scuola» fu annunciata, ci fu una positiva reazione al fatto che un governo poneva come priorità la questione educativa, e anche se questa risoluzione si è molto annacquata, il giudizio positivo resta, e dovrebbe spingere a supportare i tentativi di realizzazione, in attesa che escano le previste deleghe.
Tra gli aspetti positivi, c’è il processo di realizzazione dell’alternanza scuola lavoro, che sta diventando parte integrante della progettazione nelle scuole secondarie superiori, e ha l’indubbio merito di avvicinare la scuola e il mercato del lavoro in quanto alleati nella produzione di competenze, e soggetti educativi di pari dignità. Questo è stato possibile grazie ad anni di progetti comuni adeguatamente valutati e riproposti. Un giudizio per lo più positivo si può formulare sulle strategie di inclusione dei ragazzi con cittadinanza non italiana, e sui timidi passi in avanti per una effettiva integrazione delle scuole paritarie nel sistema nazionale, anche se continua a mancare una seria ricerca sui costi e i benefici di un sistema integrato. Per contro, la realizzazione della piena autonomia ha tempi lenti e momenti di stallo, i finanziamenti alle scuole restano irrilevanti, e i supposti poteri del “preside sceriffo” sono seriamente inficiati dai meccanismi burocratici.
I processi di valutazione vivono fra luci ed ombre, attaccati da chi vorrebbe limitarsi all’ autovalutazione rifiutando ogni controllo esterno: l’Invalsi continua però la sua attività, e i recenti e molto pubblicizzati fenomeni di differenziazione fra i voti della maturità, e fra questi voti e l’esito dei test standardizzati, ha fatto crescere l’idea che sia necessario un sistema di valutazione oggettiva, per quanto carente e migliorabile. Resta molto da fare per il corpo ispettivo e per il potenziamento delle attività di ricerca e sostegno al miglioramento attribuite all’Indire. Manca una seria ricerca sulle esperienze compiute: tanto per fare un esempio, dovrebbe partire la sperimentazione di una secondaria superiore di quattro anni in sessanta classi prime (lo scorso anno gli iscritti nelle classi prime erano circa seicentomila…), ma non sono state valutate le molte scuole superiori italiane all’estero che dal 2010 sono di quattro anni.
E siamo arrivati al punto dolente: la questione degli insegnanti, che è stata affrontata – nonostante il dettaglio - dal punto di vista del “pio desiderio”, promettendo ancora una volta la fine del precariato. La realtà è sotto gli occhi di tutti, e pare evidente che non se ne esce senza sostanziali mutamenti dello status quo. Questo significa che lo Stato fissa i requisiti per accedere alla docenza, ne controlla il possesso, abolendo le graduatorie, determina alcuni elementi del contratto di lavoro, sia in termini economici sia per tutelare la libertà di insegnamento, e fissa le linee per la valutazione. Le procedure di reclutamento dovrebbero essere lasciate alle scuole o alle reti di scuole. Non mi importa se i presidi sceglieranno parenti e amici, purché siano salvi i requisiti di qualità. Marie Curie non doveva avere il Nobel perché era moglie di Pierre, figurarsi poi la loro figlia Irene? Il possesso di un titolo non garantisce a nessuno il posto di lavoro: perché questa regola non dovrebbe valere per gli insegnanti?
Solo modificando profondamente il reclutamento, e quindi il finanziamento dell’istruzione, e lasciando al mercato, sia pur regolamentato, i meccanismi di trasferimento, sarà possibile avere in ogni scuola fin dal primo giorno il tipo e il numero di insegnanti necessari, pagati in base al lavoro che svolgono, eliminando alla radice il circolo vizioso del precariato. Se le motivazioni di questo assurdo “mercato del lavoro” sono di tipo politico, finalizzate alla crescita del consenso, si abbia il coraggio di dirlo: ma allora bisogna anche riconoscere che la scuola è finalizzata prima agli interessi degli operatori, e poi dei clienti. Lo studente, per dirla con Aristotele e con i sindacati, è un accidente che interferisce con la sostanza della scuola, che è e resta il posto di lavoro degli insegnanti.
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