Una delle tante cose che non ho mai capito, parlando di Europa, è perché i Trattati siano (e soprattutto permangano) così severi sul deficit pubblico, che mai e poi mai dovrebbe superare la fatidica soglia del 3% del Pil, e siano così indulgenti sul debito, cui senza molta convinzione (ovvero senza sanzioni) si richiede soltanto di restare, o più o meno lentamente tornare, al di sotto del 60% del Pil. Se lo scopo principale di queste due regole è evitare che uno Stato indebitato non riesca più ad approvigionarsi sui mercati finanziari in quanto gli investitori hanno perso fiducia nella sua capacità di ripagare i debiti, allora non sarebbe male chiedersi anche: ma i mercati si preoccupano di più del deficit o del debito?
Ebbene, da parecchi anni la risposta a questa domanda è piuttosto netta: l'analisi statistica mostra che, almeno nell'area euro, il premio al rischio richiesto dai mercati (in buona sostanza: lo spread sui titoli pubblici decennali), è molto sensibile al rapporto debito/Pil ma lo è pochissimo al deficit (un punto documentato nel Dossier sui conti pubblici, a cura della Fondazione Hume, che il lettore trova in questa pagina). In breve: se uno Stato vuole raccogliere prestiti a buon mercato, molto dovrebbe preoccuparsi del livello del proprio debito, e assai meno di quello del deficit. L'esatto contrario di quel che suggeriscono le regole europee, severe sul deficit ma permissive sul debito.
Vista da questa angolatura, ben si comprende la linea del nostro governo, che al momento di impostare la politica di bilancio per il 2016, ha chiesto sconti politici sul deficit (concessi), impegnandosi al contempo a far finalmente scendere il rapporto debito/Pil, che l'anno scorso aveva toccato il massimo storico dalla fine della seconda guerra mondiale. Se quel che inquieta i mercati è il debito e non il deficit, è più che razionale puntare sulla riduzione del debito e mettere in secondo piano il livello del deficit.
L'impegno a ridurre il rapporto debito/Pil del 2016 è stato ribadito in varie occasioni pubbliche, anche recenti. Eppure, da almeno sei mesi è piuttosto chiaro che quell'impegno non potrà essere mantenuto. Vediamo perché.
La previsione governativa di una riduzione del rapporto debito-Pil poggiava su tre pilastri: uno sforzo di contenimento del tasso di crescita dell'ammontare nominale del debito; una inflazione dell'1%; una previsione di crescita del Pil dell'1.5% in termini reali.
Sul primo versante le cose non sono andate affatto male: la velocità di crescita del debito nominale durante gli anni della crisi è rimasta perlopiù in prossimità del 4%, nel 2015 è scesa al 2.4%, nei primi 7 mesi del 2016 è scesa ancora, portandosi intorno all'1.7%. Fin qui tutto bene.
I problemi cominciano quando dal numeratore (il debito nominale) si passa al denominatore (il Pil nominale). Qui le cose vanno decisamente male, e non da oggi. E' almeno dai primi mesi dell'anno che sappiamo due cose: primo, nonostante gli incentivi governativi il Pil reale del 2016 non crescerà dell'1.5% come ipotizzato dal governo; secondo, nonostante gli stimoli della Banca Centrale Europea (Quantitative Easing) l'inflazione 2016 non si avvicinerà in modo apprezzabile all'obiettivo del 2% (auspicato dalle autorità monetarie), ma neppure a quello più modesto dell'1% ipotizzato dal governo.
Tutto ciò, in concreto, significa che con ogni probabilità quest'anno il Pil nominale crescerà meno dell'1%, ossia di meno del tasso di crescita del debito nominale, che ha sì rallentato la sua corsa rispetto al passato, ma negli ultimi mesi è tornato ad accelerare (a giugno-luglio il debito è cresciuto del 2.2% rispetto a un anno prima). E se il Pil nominale cresce di meno del debito, è matematico che il rapporto debito/Pil aumenti, quest'anno esattamente come negli anni scorsi.
Nella sua semplicità, l'aritmetica del rapporto debito/Pil ci mostra in tutta chiarezza il nucleo del problema italiano: il Pil in termini reali cresce di meno, molto di meno di quanto, anche a causa della flessione dei prezzi, cresca il debito in termini reali. Giusto per dare un ordine di grandezza, l'ultima variazione tendenziale del debito pubblico in termini reali segna +2.4, l'ultima variazione tendenziale del Pil segna + 0.8%. E' come dire che facciamo debiti a un ritmo triplo rispetto a quello con cui crescono le nostre risorse: l'incremento del Pil è sistematicamente al di sotto di quello che occorrerebbe per frenare l'aumento del rapporto debito/Pil. E, quel che è più grave, la nostra crescita asfittica non è spiegabile con il rallentamento dell'economia europea, perché la stragrande maggioranza dei paesi dell'Unione crescono più di noi, oggi come ieri.
A quanto pare, la riduzione del rapporto debito/Pil, più che un'utopia o una chimera, è una fatica di Sisisfo. Sappiamo che dobbiamo raffreddare la crescita del debito, e ci stiamo persino riuscendo (vedi il grafico in alto). Ma, appena freniamo la corsa del numeratore (il debito in termini reali), dobbiamo constatare che il denominatore (il Pil) frena ancora di più. A quel punto ci convinciamo che, per far crescere il Pil, dobbiamo stimolare l'economia, facendo più deficit e rimandando gli obiettivi di risanamento dei conti pubblici. La Commissione europea ci dà il permesso di sforare un po', il Pil ringrazia dello stimolo ricevuto, ma non accelera abbastanza da colmare la voragine che, proprio per rianimarlo, è stata aperta nei conti pubblici. E così, di anno in anno, di Legge di stabilità in Legge di stabilità, possiamo andare avanti all'infinito. Perché nessuno, ma proprio nessuno, pare avere un'idea praticabile, e per “praticabile” intendo economicamente e politicamente praticabile, per liberare Sisifo dalla pena cui è condannato per l'eternità.
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