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Credibilità, la vera sfida

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Credibilità, la vera sfida

La banca centrale americana (Fed) balbetta, quella giapponese (BoJ) alza la voce; due strategie opposte, un problema comune: essere credibili. Per entrambe una sfida: essere credibili, come condizione necessaria per essere efficaci.

Una sfida dall'esito tutt’altro che scontato.

La Fed non ha modificato le decisioni sui tassi di interesse, lasciando però nel contempo intendere che un innalzamento dei tassi di interesse entro la fine dell'anno è oggi più probabile; allo stesso tempo, il dissenso interno si è manifestato in modo esplicito, con tre voti contrari. Nello stesso giorno, la BoJ ha invece annunziato un ulteriore svolta in senso espansivo della politica monetaria, segnato da due decisione: l’andamento dell’inflazione potrà superare il tradizionale obiettivo del due per cento; la politica di schiacciamento dei tassi di interesse riguarderà non solo i tassi a breve termine, ma anche quelli a più lunga scadenza. Da un parte del Pacifico, la politica monetaria espansiva sembra agonizzante, ma intanto continua; dall’altra parte dell’oceano, l’azione monetaria espansiva diventa vieppiù aggressiva. Due scelte assai diverse, accomunate da una radice comune: le banche centrali hanno un problema crescente di credibilità. Ed un problema di rilevanza epocale, che ha radici lontane.

Negli ultimi quattro decenni il ruolo della politica monetaria e la centralità dei banchieri centrali nei Paesi avanzati sono cresciuti esponenzialmente di pari passo sotto la spinta di un motore, unico e potente: la credibilità. Alla fine degli anni settanta l'efficacia della politica monetaria come strumento di stabilizzazione dell'economia era ridotta al lumicino: la crescita economica ristagnava, l'inflazione galoppava.

La causa del fallimento strutturale della politica monetaria veniva individuata nel fatto che lo strumento fosse sotto il controllo dei politici in carica. I governi avevano la tentazione strutturale di utilizzare la politica monetaria per risolvere tutti quei problemi macroeconomici caratterizzati da una duplice peculiarità: avere dei benefici di consenso immediati, e nel contempo costi economici dilazionati nel tempo. Per cui stampare moneta era efficace per occultare le rigidità sul mercato del lavoro, creando – solo temporaneamente – occupazione; oppure per finanziare in modo sistematico spesa pubblica in eccesso, quindi disavanzo, dunque distorcendo sia gli equilibri monetari che quelli fiscali; oppure ancora per finanziare salvataggi bancari, che accomodavano ed accrescevano l'inefficienza – e talvolta la corruzione – dell'industria bancaria e finanziaria.

Dunque il controllo politico della azione monetaria la condannava all'inefficacia, perché famiglie ed imprese sapevano che la politica monetaria non poteva che creare inflazione. Per ridare credibilità alla politica monetaria occorreva affidarla ad una istituzione che fosse meno miope dei politici, in quanto indipendente da loro e lontana dalla tentazione di nascondere i problemi del mercato del lavoro, della fiscalità, ed anche del sistema bancario. I banchieri centrali salirono sul proscenio, con regole che ne garantivano l'indipendenza dagli esecutivi, anche delimitandone il perimetro di azione: il ruolo di stabilizzazione deve riguardare soprattutto la dinamica dei prezzi, e le responsabilità del banchiere centrale si devono separare, o almeno allontanare sia dalla politica fiscale che da quella di vigilanza. La credibilità dei banchieri centrali influenzò in modo decisivo le aspettative, la politica monetaria tornò ad essere efficace. Almeno fino al 2008.

La Grande Crisi ha fatto scoprire ai politici – americani, europei, giapponesi – l’importanza della stabilità finanziaria, che hanno dunque riallargato il perimetro delle responsabilità delle banche centrali, che sono rientrate nei fatti sia nell’area della politica fiscale che di quella di vigilanza. Le loro competenze ed il loro patrimonio di credibilità hanno complessivamente consentito di gestire l'emergenza finanziaria, che è stata superata. Ma è non stato superato il ristagno della crescita reale e dell'inflazione.

Per una ripresa stabile della dinamica delle variabili reali e nominali occorre che le aspettative siano governate nella giusta direzione. E qui che sono emersi i limiti dell'azione delle banche centrali, soprattutto rispetto ad attese che erano proporzionate ai risultati ed alla reputazione accumulata nei quattro decenni precedenti. La credibilità dei banchieri centrali, e quindi l'efficacia della politica monetaria, è risultata evidentemente asimmetrica: alta e robusta nel gestire processi di disinflazione, bassa e volatile quando invece è la reflazione l'obiettivo principale.

Alla sfida della credibilità di può reagire in modi diversi. Da una parte, ci si può ricordare che la credibilità di una banca centrale dipende anche dalla sua trasparenza, in termini di capacità di annunziare e perseguire regole di condotta. È la strada scelta dalla banca centrale giapponese. La BoJ segue una regola di politica monetaria: ieri di quella regola è stato modificato l'obiettivo – il riferimento al tasso di inflazione – ed il disegno dei tassi di interesse, accentuandone il carattere espansivo. Dal lato opposto, si può scegliere l'opacità. E' questa la strada che continua a percorrere la banca centrale americana. La Fed non ha più una regola monetaria, condita con una anarchia comunicativa dei suoi membri che ne accentua i danni reputazionali. La Fed da mesi galleggia in un vacuum strategico che ha come unico risultato – poco invidiabile – di aver messo d’accordo tutti i critici – dai falchi alle colombe – sulla sua tossicità. L'unico beneficio è – appunto – il galleggiamento dei suoi vertici. I danni, che vanno a cerchi concentrici dalla reputazione della Fed, alla stabilità dei mercati, americani e non, economici e politici, sono purtroppo multipli e crescenti.

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