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L’Europa si sbriciola e l’Italia paga il conto

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EMERGENZA MIGRANTI

L’Europa si sbriciola e l’Italia paga il conto

Dovunque frontiere, muri e quote anti-immigrati, che siano siriani, afghani, polacchi o italiani poco importa. Con il 58% dei consensi il Canton Ticino domenica ha votato per limitare il flusso dei 62mila lavoratori transfrontalieri, italiani appunto, e dare la preferenza alla manodopera residente.

Le sirene del protezionismo dilagano in Europa e dintorni mentre appare sempre più incontenibile la rivolta degli europei contro l’immigrazione. Paradossalmente oggi sembra l’unico cemento che li unisce, pur dividendoli profondamente.

Non è solo questione di agitatori populisti e xenofobi. La percezione negativa dell’altro, la paura del diverso, che in più spesso ha la faccia del terrorista islamico della casa accanto, l’egoismo economico vengono anche dall’inconscio collettivo di società abituate a una sostanziale omogeneità corroborata da una rassicurante supremazia culturale costruita su identità forti, europee e nazionali, e prosperità diffusa.

Tutti questi punti fermi stanno franando da tempo sotto i colpi della globalizzazione totalizzante del mondo. Anche negli Stati Uniti. A lungo i governi hanno risposto minimizzando, salvo ora provare a correre ai ripari, come sempre in ritardo e sotto il pungolo di cittadini frustrati e inviperiti (anche se non sempre in modo del tutto lucido e razionale). Dopo che i buoi sono fuggiti dalle stalle e i sentimenti di insicurezza sociale, economica, personale sono diventati la realtà quotidiana prevalente, recuperare il terreno perduto diventa un’impresa acrobatica dall’esito molto incerto.

In Europa ormai l’opinione pubblica tende a fare di tutta l’erba un fascio: immigrato è chiunque sia straniero, che venga da un Paese extra-comunitario o comunitario non fa differenza. L’ostilità, dicono i sondaggi Ue, supera in media il 60% ed è in costante aumento. I voti parlano ancora più chiaro.

Una volta la ricca Svizzera e i suoi sentimenti xenofobi facevano un po’ storia a parte, oggetto anche di indignazione. Oggi invece la si scopre maestra di vita europea ante litteram.

Canton Ticino non è in emergenza economica né occupazionale, semplicemente paventa l'“invasione” italiana e di qui l’eccessiva diluizione della propria identità attraverso l’importazione delle diversità altrui. Voto sbandato? Tutt’altro. Perfettamente coerente con il referendum elvetico del 2014 che ha voluto limiti alla libera circolazione dei lavoratori Ue: contro gli interessi dichiarati dell’industria elvetica e in plateale contraddizione con le quattro libertà del mercato unico europeo del quale peraltro la Svizzera, Paese dal virtuale pieno impiego (3,1% i disoccupati), continua a voler far parte. Trovando scarsa comprensione a Bruxelles.

La stessa che del resto incontra la Gran Bretagna nel dopo-Brexit: altro referendum giocato sull’equivoco identitario-migratorio, dove ancora una volta lo straniero è il cittadino-lavoratore in arrivo dagli altri Paesi dell’Unione. E ancora una volta la pretesa è di regolamentarne la mobilità senza però perdere i vantaggi del mercato unico.

Altra domenica, la prossima, altro referendum. In Ungheria. Per dire sì o no alle quote obbligatorie per la spartizione dei migranti in senso proprio, rifugiati per intendersi, senza il consenso preventivo del parlamento magiaro. Il no è dato vincente. Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono sulle stesse posizioni per ragioni che, al fondo, non sono molto lontane da quelle dei Paesi Ue più affluenti.

Dall’Austria alla Danimarca, Svezia e Finlandia passando dalla stessa Germania, Angela Merkel a parte, chi più chi meno tutti cercano sicurezza nelle quote e dentro i patrii confini, in nome di variegate e spesso inconfessate pulsioni nazional-identitarie molto più che economiche, di fronte a flussi che minacciano di destabilizzare modelli di sviluppo ma soprattutto equilibri consolidati di società disorientate.

L’Europa si sbriciola così nel labirinto delle piccole e grandi fortezze nazionali in costruzione che serviranno a ben poco, perché il problema è globale e richiede almeno un governo europeo. Ma le elezioni in Olanda, Francia e Germania nel 2017 non sono tempi propizi. E si vede.

Le chiusure del Nord mettono però alle corde il Sud Europa. Tra blocco della rotta balcanica e accordo con la Turchia, le porte di Grecia e Bulgaria sono quasi sbarrate. Da Egitto e Libia la pressione si scarica tutta sull’Italia a ritmi alla lunga insostenibili. Anche se si farà senza Matteo Renzi, domani il vertice franco-tedesco di Berlino allargato al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, sbaglierebbe a non tenerne conto.

La Merkel ieri ha parlato di accordi “alla turca” da firmare con Tunisia ed Egitto, di aiuti allo sviluppo per sradicare le cause delle migrazioni e di lotta senza quartiere agli arrivi illegali. L’approccio è ragionevole ma le decisioni concrete non devono tardare. In dicembre c’è un referendum anche in Italia. Oggi temporeggiare equivale a destabilizzare: non è nell’interesse di nessuno.

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