Commenti

La spinta degli investimenti

  • Abbonati
  • Accedi
l’analisi

La spinta degli investimenti

Va bene la nuova flessibilità che va profilandosi per il conteggio delle spese dirette all'emergenza terremoto e migranti, ma la vera partita va giocata su un altro fronte, decisivo per far ripartire la crescita: quello degli investimenti. E ora il Governo prova a rilanciare.

Progetti infrastrutturali con impatto certo e quantificabile sull’occupazione e sul Pil, cantierabili in tempi brevi, come del resto ci chiede Bruxelles che quest’anno ha autorizzato spese per lo 0,25% del Pil con il meccanismo del cofinanziamento. Progetti che puntino in poche parole ad incidere sul potenziale di crescita dell’economia. Per questo, la cautela è d’obbligo quando si rilancia – come ha fatto ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi – il progetto del Ponte sullo Stretto di Messina, opera faraonica dall’esito incerto come mostra l’intera vicenda dipanatasi dal 2001 in poi (quando a lanciarla fu Silvio Berlusconi) fino allo stop imposto nel 2012 dal governo Monti. L’eventuale riapertura dei cantieri, se mai ci si arriverà, non è certo prevedibile in tempi brevi, non fosse altro perché occorrerebbe passare anche per un voto del Parlamento. Si può, e per certi versi si deve, provare in un’ottica di medio periodo a riproporre in sede di dibattito politico a Bruxelles il tema dello scorporo dal calcolo del deficit (in tutto o in parte) delle spese dirette agli investimenti produttivi (la vecchia o nuova golden rule). Servirebbe quanto meno ad aggirare il veto che viene dalla Commissione Ue ad utilizzare per più anni le clausole già autorizzate. Tra queste, appunto la clausola per gli investimenti. Ma il vero problema non sono i vincoli europei. La strada del rilancio della fondamentale componente degli investimenti, compressa in modo rilevante negli anni della crisi, è obbligata per rilanciare la domanda interna e accrescere il livello di produttività del nostro Paese. Questione prioritaria se si considera che in tre anni abbiamo perso dieci punti di Pil. Già nel Def di aprile, rivisto ieri sera dal Consiglio dei ministri con la Nota di aggiornamento delle principali variabili macroeconomiche, si osserva come l’evoluzione per gli investimenti fissi lordi indichi «una ripresa dell’attività di spesa», dopo diversi anni di drastica contrazione, con un incremento del 2% previsto già quest’anno (fino al 3% nel 2018). Stime che incorporano appunto le spese per il cofinanziamento nazionale dei progetti di investimento, a fronte dei quali il governo ha chiesto e ottenuto margini di flessibilità. E ora, tra i nuovi intendimenti programmatici del Governo si segnala espressamente l’operazione di “trasferimento” dal versante delle spese a minore impatto sul Pil a quelle (investimenti pubblici e privati in primis) in grado di spingere l’acceleratore sull’incremento del Pil potenziale. Da qui lo scarto tra una stima tendenziale di crescita del 2017 pari allo 0,6% e un Pil “programmatico” dell’1 per cento.

Va nella direzione di spingere il pedale sul fronte degli investimenti il piano annunciato nei giorni scorsi dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che punta al rafforzamento degli strumenti diretti ad accrescere la produttività, sia sul versante degli incentivi che su quello del sostegno all’economia digitale. Obiettivo, accrescere gli investimenti privati da 80 a 90 miliardi, già nel 2017, mentre per il 2017-2020 la spesa privata in ricerca e sviluppo dovrebbe aumentare di 11,3 miliardi, con al centro il piano Industria 4.0. «Entro il 20 ottobre le misure relative a Industria 4.0 dovranno essere formalmente ratificate», ha annunciato ieri Renzi.

Investimenti, dunque, quale leva fondamentale, accanto alle riforme strutturali. Gli effetti possono non essere immediati, ma non vi è alternativa anche per l’impatto che ne deriverebbe sul versante dei conti pubblici. L’incremento del Pil (ben oltre i modesti tassi di incremento con cui dobbiamo fare i conti, come mostra il quadro macroeconomico che emerge dalla Nota di aggiornamento del Def) consentirebbe di ridurre il debito, via “denominatore”, senza dover ricorrere a manovre restrittive. È la via maestra per avviare crescita e finanza pubblica finalmente su un sentiero virtuoso

© Riproduzione riservata