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Quindici giorni per uscire dall’impasse

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LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE

Quindici giorni per uscire dall’impasse

Imagoeconomica
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Quindici giorni: è il tempo che si è preso Matteo Renzi per «trovare una soluzione» all’intricata vicenda della riforma della giustizia penale, presentata nel 2014 come fiore all’occhiello del governo ma ora diventata una pesante zavorra politica.

La campagna referendaria ci ha messo del suo e la bulimia legislativa pure, visto che il Ddl è diventato di 40 articoli che spaziano dall’aumento di pena per alcuni reati (furti, scippi, rapine, voto di scambio elettorale politico mafioso) all’allungamento della prescrizione, dalle impugnazioni a un nuovo sistema penitenziario non più carcerocentrico; passando per la stretta sulle intercettazioni, l’«indagine breve», l’estensione dei processi in videoconferenza. Molta carne al fuoco, che però non ha saziato tutti gli appetiti e per di più ha suscitato tanti mal di pancia. Troppi, secondo Renzi, che perciò finora non ha voluto giocare la carta della fiducia sponsorizzata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, temendo per la tenuta del governo, in un momento in cui l’imperativo è arrivare al referendum del 4 dicembre senza intoppi. E senza inciampare in misure «impopolari» a destra e a sinistra, tra maggioranza e opposizione, tra magistrati e avvocati (ovviamente per ragioni diverse).

Ma ecco che, per uscire dall’angolo, il premier ha tirato fuori dal cappello «gli amici magistrati» e il «capo dell’Anm» Piercamillo Davigo: non si può non tener conto delle loro critiche, ha detto la settimana scorsa. Davigo l’ha preso in parola, rilanciando le richieste già espresse dall’Anm un anno fa, più altri due dossier: sulla penuria di cancellieri e magistrati, che sta portando i Tribunali alla «paralisi», e sul decreto legge che proroga i vertici della Cassazione e modifica i tempi della formazione, del tirocinio, di permanenza delle toghe negli uffici giudiziari per tamponare l’emorragia di magistrati prepensionati. Tre dossier sui quali l’Anm minaccia uno sciopero. Che per ora Davigo è riuscito a evitare chiedendo a Renzi e a Orlando un incontro. Richiesta formalizzata mercoledì scorso.

«Volentieri ascolteremo le valutazioni dell’Anm e quelle di tutti gli altri» ha risposto ieri il premier, prendendosi 15 giorni di tempo per «lavorare a una soluzione» e sostenendo che «la riforma ha molti aspetti positivi» e nel mondo della giustizia gode di molto consenso». Quanto alla fiducia, ha fatto sapere che il governo deciderà «sulla base di com’è la discussione parlamentare», accontentando così Orlando, secondo cui il Senato deve votare salvo, in caso di inciampi su un voto segreto (sono 170), ricorrere alla fiducia.

La riforma dovrebbe riprendere a camminare martedì ma è invece probabile un cambiamento del calendario. Del resto, Renzi ha chiesto 15 giorni di tempo per ascoltare «tutti»... E i primi saranno i magistrati. Che si giocano tre carte. Quella politicamente più indigesta riguarda la riforma della giustizia penale, là dove impone ai Pm di chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio «entro 3 mesi» dalla conclusione delle indagini, pena l’avocazione da parte del Procuratore generale. L’Anm si accontenterebbe di un aumento a 6 mesi, ma finora c’è stato l’altolà di Alfano e di mezzo Pd. Nel mirino, poi, c’è anche la norma che impone al Pm di iscrivere «immediatamente» una notizia di reato, pena segnalazione disciplinare. Ma anche qui, finora, non ci sono state aperture politiche.

Sul fronte del personale di cancelleria (in alcuni casi le scoperture toccano il 50% degli organici), il governo metterà sul tavolo l’«inversione di tendenza» dopo 20 anni di blocco delle assunzione, avendo appena avviato il reclutamento di 1000 cancellieri. Una goccia nel mare, replica l’Anm, visto che ne mancano 9mila e la mobilità si è rivelata un boomerang perché ha portato nei Tribunali personale inadeguato(dai portantini agli ingegneri) a svolgere il lavoro giudiziario. Perciò chiede quanto meno una programmazione delle assunzioni. Quanto alla carenza di magistrati, imputabile alla scelta del governo di abbassare l’età pensionabile da 75 a 70 anni senza alcuna gradualità (salvo due proroghe), l’Anm chiede di portare a 72 anni l’età pensionabile, per tutti i magistrati, e di non cambiare le carte in tavola sulla permanenza minima negli uffici. Richiesta finora inascoltata: la Camera (dove il Dl è stato appena approvato) ha confermato l’impostazione del governo. Di più, per compensare le uscite ha ridotto anche la durata della formazione delle giovani toghe presso la Scuola della magistratura, ridotta da 6 mesi ad uno. La Scuola l’ha presa male e certo non è un buon segnale in tempi in cui alla magistratura si chiede la più ampia professionalità e apertura culturale.

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