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I lavoratori immigrati «muovono» il Pil e pagano 640mila pensioni

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Sesto rapporto Fondazione Moressa

I lavoratori immigrati «muovono» il Pil e pagano 640mila pensioni

I 2,3 milioni di stranieri che lavorano in Italia hanno prodotto nel 2015 ben 127 miliardi di ricchezza (8,8% del valore aggiunto nazionale). Il contributo all’economia di questi lavoratori immigrati si traduce in quasi 11 miliardi di contributi previdenziali pagati ogni anno, in 7 miliardi di Irpef versata, in oltre 550 mila imprese straniere che producono ogni anno 96 miliardi di valore aggiunto. Di contro, la spesa pubblica italiana destinata agli immigrati è pari all'1,75% del totale, appena 15 miliardi (molto meno, ad esempio, dei 270 miliardi spesi per le pensioni).

Questi i principali risultati della sesta edizione del Rapporto annuale sull'economia dell’immigrazione, presentato l’11 ottobre al Viminale dalla Fondazione Leone Moressa. Rapporto dedicato quest'anno all'impatto fiscale dell'immigrazione e, dunque, al contributo della componente straniera alle casse pubbliche del nostro paese, terzo per residenti stranieri dopo Germania e Regno Unito.


Uno dei primi benefici dell’immigrazione sono, appunto, i contributi pensionistici versati dagli stranieri occupati: nel 2014 hanno raggiunto quota 10,9 miliardi che – se si riparte il volume complessivo per i redditi da pensioni medi – sono equivalenti a 640mila pensioni italiane, come ha sottolineato Enrico Di Pasquale nella relazione di presentazione del rapporto. A questo va aggiunto il gettito Irpef complessivo pagato dai contribuenti stranieri (l'8,7% del totale) e pari a 6,8 miliardi.

L'IMPATTO FISCALE
Contribuenti nati all'estero per regione di residenza, anno 2015 (Fonte:Elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati MEF – Dipartimento delle Finanze)

«Un altro beneficio - ha detto ancora il ricercatore della Fondazione Moressa - è quello derivante dal fattore demografico: nel 2015, gli italiani in età lavorativa rappresentavano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiungeva il 78,1%». E, come scrive nel rapporto Stefano Solari (Università di Padova), «la tendenza in Italia da qui al 2050 è un calo di un terzo (-12,3 milioni) della popolazione potenzialmente attiva (20-70 anni) e un aumento degli anziani (+6,5 milioni) … un processo non sostenibile economicamente».

Il tasso di occupazione degli stranieri è nettamente maggiore a quello degli italiani, ma nella maggior parte dei casi (66%) si tratta di lavori a bassa qualifica, che trovano solo in parte giustificazione dal basso titolo di studio della popolazione straniera. Questa situazione si traduce in differenziali di stipendio e reddito molto alti tra la popolazione straniera e quella italiana, e quindi anche in tasse più basse versate (solo di Irpef la differenza pro-capite tra italiani e stranieri è di duemila euro). Per mantenere i benefici attuali anche nel lungo periodo, sarà necessario aumentare la produttività degli stranieri, non relegandoli a basse professioni.

Significativo anche lo sviluppo dell’imprenditoria straniera: nel 2015 si contavano 656 mila imprenditori immigrati e 550 mila imprese a conduzione straniera (il 9,1% del totale). Negli ultimi anni (2011/2015), mentre le imprese condotte da italiani sono diminuite (-2,6%), quelle condotte da immigrati hanno registrato un incremento significativo (+21,3%). Per il segretario generale di Confartigianato, Cesare Fumagalli, «il fenomeno comincia ad avere una consistenza rilevante», soprattutto nell'edilizia (15% del totale delle imprese). «L’obiettivo ora è dunque quello aiutare queste imprese ad evolvere», passando da dimensioni unipersonali a soggetti economici in grado di aggredire mercati anche complessi».

Il contributo dei lavoratori stranieri alla crescita dell’economia è dunque importante, anche in considerazione del fatto che il costo degli stranieri è, come già ricordato, inferiore al 2% della spesa pubblica italiana. Secondo il sottosegretario del Ministero dell’Interno, Domenico Manzione, è giunta l’ora di acquisire consapevolezza che «il fenomeno migratorio ha assunto ormai un carattere strutturale» e «non ci si può più ostinare a non vederlo o a non volerlo vedere» o peggio ancora a trattarlo con gli strumenti dell’emergenza. «Un fenomeno che va disciplinato e gestito nel migliore dei modi per trasformarlo in ricchezza economica».

Giusto, dunque, come chiede Federico Soda (direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, OIM), «sviluppare una riflessione approfondita sul ruolo degli immigrati nello sviluppo dell’Italia, anche per arrivare a una migliore gestione dei flussi». È importante cioè «individuare soluzioni di lungo periodo, dove l’immigrazione non è vista come un problema da risolvere, ma una risorsa da valorizzare». Secondo il dirigente Oim, «è necessario rafforzare gli approcci coordinati sia a livello governativo nazionale ed europeo e poi con i paesi di origine e di transito»; è poi fondamentale il coinvolgimento del settore privato «che può accompagnare e sostenere i processi di formazione e dare un aiuto del riconoscimento di qualifiche utili per favorire l'accesso al mercato del lavoro»; bisogna poi «assolutamente rafforzare i meccanismi di protezione dei diritti dei lavoratori migranti».

Così com’è importante «portare a termine accordi di collaborazione fra gli attori internazionali», come ha sottolineato Luigi Vignali, capo Unità di coordinamento del Ministero degli Affari Esteri, citando a proposito la dichiarazione di New York che prevede per il 2018 un Patto internazionale per rifugiati e migranti e il Migration Compact proposto nei mesi scorsi all’Europa dal Governo italiano per ridurre i flussi anche lungo la rotta mediterranea attraverso nuove intese con i Paese d’origine e di transito - in particolare quelli africani - da finanziare con strumenti innovativi come i bond Ue-Africa. A proposito dell’Africa, Vignali ha anche ricordato il Piano per gli investimenti approvato a metà settembre dalla Commissione europea «per il quale Bruxelles ha già promesso 3,35 miliardi in cinque anni con l’obiettivo che diventino 44 grazie ancora una volta all’effetto leva generato da capitali pubblici e privati». Un piano – ha sottolineato il dirigente del ministero degli Affari Esteri «che può favorire la cosiddetta migrazione circolare e legale».

Ovvero, «chi viene formato in Europa deve essere messo nelle condizioni di poter tornare nel paese di origine per mettere in pratica l’esperienza professionale acquisita all'estero e favorire lo sviluppo locale».

Un modo, questo, che consentirebbe anche di allentare lo stesso flusso migratorio che, alla fine, non fa che peggiorare la condizione di sottosviluppo privando i paesi poveri di forza lavoro giovane e, non di rado, anche qualificata.

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