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Le tre frecce che possono far ripartire l’economia

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L'Editoriale|Editoriali

Le tre frecce che possono far ripartire l’economia

Mentre l’economia italiana avanza faticosamente, da una manovra all’altra, che cosa succede nel resto del mondo? La domanda è importante, perché siamo tutti sulla stessa barca. Anche se è vero che noi prendiamo una polmonite quando gli altri prendono un raffreddore o pedaliamo nelle retrovie quando gli altri allungano il passo nel plotone di testa, rimane il fatto che i nostri andamenti seguono, bene o male, il ciclo internazionale.

Sollevando lo sguardo oltre frontiera, vediamo venti contrari. L’economia mondiale avanza ma, se guardiamo alle previsioni per ogni anno degli ultimi, vediamo che queste previsioni, man mano che ci avviciniamo all’anno previsto, sono andate calando. E questo è vero sia per le economie avanzate che per quelle emergenti. È come se, appunto, ci fosse un vento contrario che spegne lo slancio della domanda.

Non facciamoci male, però. In un recente discorso alle Nazioni Unite il presidente Usa, Barack Obama, ha messo il dito su un paradosso al cuore dell’economia moderna. Viviamo nel miglior periodo della storia dell’uomo, ma per molti non è così: un recente sondaggio del World Economic Forum ha registrato che in quasi tutti i Paesi più del 50% della popolazione pensa che il mondo stia andando peggio. Ma nel quarto di secolo che è passato dalla fine della “guerra fredda” la quota di popolazione nel mondo che vive in condizioni di estrema povertà è scesa dal 40% al 10%, mentre la speranza di vita ha continuato ad aumentare.

Tuttavia, ed è questo che forse spiega il paradosso, le diseguaglianze sono cresciute. Magari siamo vittime del successo: dopo la guerra ogni generazione ha conosciuto un livello di benessere maggiore della generazione precedente. Ma oggi per molti non è così: la “rivoluzione delle aspettative crescenti” si stempera in un diffuso malessere.

Anche le innovazioni nella politica economica – principalmente il ricorso all’espansione quantitativa della moneta – cominciano a destare diffidenza.

Agli incolti timori sul fatto che creare liquidità avrebbe portato all’inflazione si sostituiscono più sofisticate critiche: i tassi a zero non sembrano far molto per ravvivare l’economia, mentre danneggiano i risparmiatori. Il “tasso zero”, nel comune sentire, porta connotazioni negative e sembra contribuire a una situazione di impotenza. Le politiche monetarie non possono dare più di tanto e le politiche di bilancio sono costrette nella camicia di forza delle assurde regole europee.

Le Banche centrali, da sempre guardate con reverenza, sono oggi spesso criticate. Ma i tassi a zero non dipendono, come molti credono, dalla politica delle Banche centrali. Il tasso di interesse di equilibrio – quello al quale l’economia spontaneamente tende – non è determinato dalle Banche centrali, ma dalle forze fondamentali che plasmano i livelli desiderati di risparmio e di investimenti. Uno studio della Bank of England ha calcolato che quelle “forze fondamentali” – progresso tecnico, demografia, facilità nell’intermediazione finanziaria, ineguaglianza – hanno cospirato nell’abbassare di 4,5 punti, dal 1980, il tasso di interesse reale di equilibrio. Come ha detto Mark Carney, il canadese Governatore della Banca centrale inglese, in un recente discorso, «Noi siamo attori in una commedia scritta da altri».

Per uscire da questi venti contrari ci vuole un riallineamento delle tre politiche: monetaria, di bilancio, e strutturale. La politica monetaria deve continuare a essere espansiva, e non aver paura di aumentare le dosi se necessario. La politica di bilancio deve essere volta a sfruttare il basso costo del danaro innalzando la quota di investimenti pubblici. E le politiche strutturali devono sostenere la crescita.

Come si presentano le diverse aree del mondo rispetto a queste analisi e queste prescrizioni? L’America, una volta tolta di mezzo l’incertezza legata alle elezioni presidenziali, è l’area che promette più di altre di poter tornare alla crescita, smentendo le profezie della “stagnazione secolare”. Già oggi il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi storici (i dati recenti sui nuovi sussidi di disoccupazione sono i più bassi da 43 anni) e gli Stati Uniti continuano a essere una fucina di innovazione. La Cina, sulla quale piovono periodiche attese di crisi, cresce ancora a ritmi che, se pur più bassi del passato, sono multipli di quelli delle economie avanzate. E conserva, nelle politiche economiche, i gradi di libertà necessari per far fronte a eventuali cali nel ritmo di crescita. In Giappone, delle “tre frecce” promesse dal Governo per far rivivere l’economia – politica di bilancio, monetaria e riforme – le prime due sono espansive, ma la terza lascia a desiderare. È in Europa che il malessere è maggiore. C’è un immobilismo delle politiche e una tensione da crisi migratorie. L’unico “giocatore” in campo è la Bce. Ma non può sostituire la mancanza di una politica che sappia accettare la lezione delle cose.

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