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L’arte pop e consumista di Warhol a Genova

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L'Analisi|Cultura & Società

L’arte pop e consumista di Warhol a Genova

«La Pop Art è un modo di amare le cose». Con uno dei suoi aforismi, Andy Warhol offre questa chiave di lettura per una formula artistica che, grazie alla sua strabiliante inventiva, avrebbe dominato lo scenario americano e poi europeo dopo gli anni Sessanta fino a oggi. Apre da venerdì al Palazzo Ducale di Genova, per restarvi fino al 26 febbraio 2017, la mostra “Andy Warhol. Pop Society”, curata da Luca Beatrice e prodotta dal Sole 24 Ore Cultura – Gruppo 24 Ore e Fondazione per la Cultura dello stesso Palazzo Ducale, a 30 dalla scomparsa di questo genio nato a Pittsburgh, Pennsylvania nel 1928 da immigrati slovacchi e morto nel 1987 a New York, dove si trasferisce ventenne.

Non è una retrospettiva intesa come capillare indagine del suo lavoro, assai più complesso di quanto si possa pensare, ma piuttosto un’antologica che vuole catturare il pubblico con la forza di alcuni accostamenti, la capacità seduttiva delle immagini coloratissime, l’immersione nell’atmosfera psichedelica della Factory, una fucina di creatività dove si produceva arte, musica, cinema. Le 87 Polaroid alla fine del percorso espositivo, sui muri specchianti di una struttura collocata nella Cappella dei Dogi, siglano con il loro sapore di immediatezza un viaggio affascinante nel mondo Warholiano. Che attinge dalla vita di tutti i giorni, con gli oggetti che invadono la quotidianità della nascente società dei consumi e dalla cronaca, che con la televisione entra prepotentemente nelle case.

Non intendeva i suoi lavori come opere d’arte, bensì prodotti: il potere dell’artista sta nella capacità di inserirsi nei nuovi meccanismi della società consumistica, per cui il valore non risiede della originalità, ma nella riproducibilità e riconoscibilità. Ecco dunque che la sequenza proposta da Luca Beatrice inizia, dopo due “Autoritratti”, con la sezione “Icone”: Marylin, Jackie Kennedy e Mao. Sono figure ripetute infinite volte; personalità scelte per la loro forza mediatica, simboli di bellezza e potere.

L’idea innovativa di passare dall’opera unica al multiplo, viene ricordata con l’accostamenti di più versioni di uno stesso soggetto: le lattine di “Campbell Soup”, i “Flowers”, i “Coltelli”, i “Teschi”, le sgargianti “Cows”, e così via. Nelle sale anche le “Brillo Boxes” e le “Del Monte Boxes”, più sculture che ready-made di matrice dadaista, perché sono costruite apposta e dipinte per sembrare vere, e per richiamare questo bene di consumo assai diffuso, degno al pari di una diva come Marylin, di primeggiare sul palcoscenico della sua Pop Art. Arte per tutti. Un democrazia che riguarda i soggetti, ma anche i destinatari. Nella sezione “Ritratti” vediamo personaggi noti, come Liza Minnelli, Marcel Proust, Harald “Toni” Schumacher, Paloma Picasso, accanto ad altri sconosciuti, neppure identificati.

La tecnica della serigrafia, messa a punto all’inizio degli anni 60, gli consentiva di tradurre i suoi disegni – una sala intera è dedicata a essi – in carte e tele che potevano avere vasta diffusione. Così l’artista può variare i colori, il supporto – carta o tela – o il formato, da telette davvero piccole, come alcuni preziosi “Mao” nella prima sala, ad altre di forte impatto, come “Duty Free”, omaggio alla catena di store, che arriva dalla collezione newyorchese di Gian Enzo Sperone.

Una sezione della mostra è dedicata al soggiorno italiano di Warhol, nel 1985. Qui i ritratti di Giorgio Armani e di Gianni Agnelli, ma anche tre diversi coloratissimi “Vesuvio” in eruzione. Warhol stesso, affascinato sempre dalla forza iconica di una persona come di un oggetto, spiega così la sua passione per il vulcano: «È qualcosa di terribilmente reale. È molto più grande di un mito».

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