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La strada sbagliata

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la strada sbagliata

La strada sbagliata

Il dumping cinese corrode alle fondamenta l’industria europea. Bruxelles non può, per la pavidità politica nei confronti del gigante risvegliato dalla globalizzazione o per l’incapacità di superare gli interessi dei suoi Stati membri meno manifatturieri, girare il volto dall’altra parte.

Il progetto di riforma della normativa comunitaria anti-dumping ha una corretta valenza universale. Non indirizza i propri strali verso un Paese o un altro. Anche se oggi - è chiaro a tutti - la sindrome da affrontare è quella cinese. Questa riforma ha, però, alcune caratteristiche che rischiano di rendere più fragili i meccanismi di difesa dalle distorsioni della concorrenza. Caratteristiche che sono il risultato dell’influenza della Scandinavia e di quel Regno Unito che, peraltro, ha scelto la Brexit. Questi Paesi, la cui specializzazione produttiva è meno incentrata sulla manifattura e più sui servizi, hanno una posizione ambigua verso la Cina. I loro sistemi economici sono meno esposti al suo dumping e ai suoi prezzi stracciati. Dunque, i loro Governi frenano, anche forti della rivendicazione di Pechino dello status di “economia di mercato”. La Commissione, a sua volta, ha una serie di problemi di metodo e di questioni operative. Prima di tutto ha la necessità di allineare i dazi comunitari a quelli ben più alti praticati da altri Paesi, come gli Stati Uniti. Inoltre, deve trovare un nuovo sistema – basato sui settori – per stabilire se ci sia o no il dumping. Alla fine, in un contesto così caotico e slabbrato, le novità che si profilano rendono più complessa, più onerosa e meno incisiva l’applicazione di queste misure. Per esempio, l’onere della prova non è più a carico della Cina, ma è a carico delle sue controparti. Ossia, in questo caso specifico, la stessa industria europea. Il risultato è che l’Unione europea – o, meglio, quella parte più esposta alla cattiva concorrenza – potrebbe essere meno tutelata dal dumping. Questa debolezza di Bruxelles non va bene. Nel 2017, si terrà il diciannovesimo congresso del Partito Comunista Cinese. La leadership di Xi Jinping deve arrivare a questo appuntamento con una crescita economica stabile e con una struttura sociale meno lacerata possibile. Il triangolo cinese ha i suoi fuochi nell’industria, nella politica monetaria e nel rapporto con la globalizzazione. La manifattura cinese è segnata da deboli investimenti privati, sovraccapacità produttiva e contrazione dei profitti. La People’s Bank of China non pare intenzionata ad allentare la politica monetaria. Per le élite cinesi occorre mantenere in piedi il sistema industriale. Anche nelle sue componenti più inefficienti. Una delle soluzioni più semplici è quella di inondare i mercati globali di prodotti sottocosto. Anche se i profitti non ci sono. Evitando che le grandi fabbriche, da perni del benessere e della coesione sociale di una Cina complessa e enigmatica, si trasformino in punti di rottura da cui si possano originare ondate di scontento, di povertà e di “sfiducia” politica. Di fronte a tutto questo, l’Unione europea deve trovare la forza di dare una risposta secca e univoca. Bruxelles non può opporre il suo balbettio alla voce tonante di Pechino.

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