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Il valore europeo delle riforme

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Il valore europeo delle riforme

Niente da fare. Il punto di vista adottato dai nostri critici della riforma continua ad essere esclusivamente italo-centrico. La riforma costituzionale non va bene perché altera gli equilibri istituzionali interni al paese, al punto da configurare un regime politico parlamentare privo di bilanciamenti.

Questo punto di vista italo-centrico continua a generare una discussione senza fine, una diatriba astratta e normativa, un bel passatempo per gente che ama parlare tanto e risolvere poco. Propongo di rovesciare la prospettiva. Guardiamo alla riforma dal punto di vista europeo, domandandoci due cose. Primo, se la riforma costituzionale rafforza o no, rispetto al sistema costituzionale attuale, la posizione dell’Italia nel contesto della Ue. Secondo, se l’esito del referendum avrà conseguenze sul rapporto tra noi e la Ue.

Cominciamo dal primo punto. Perché partire dall’Europa? Perché è lì che si prendono le decisioni che influenzano, talora drammaticamente, la politica nazionale. Che ci piaccia o meno (a me, ad esempio, non piace), il consolidamento intergovernativo del processo decisionale europeo ha finito per favorire, nelle condizioni delle crisi, relazioni di forza tra governi nazionali. Sulle grandi questioni che sono al centro delle preoccupazioni dei cittadini (crisi economica, immigrazione, terrorismo, sicurezza) le decisioni vengono prese dai capi di governo che si riuniscono nel Consiglio Ue oppure dal Consiglio dei ministri economico-finanziari o degli interni o degli esteri e della difesa. Lì contano certamente le qualità personali dei leader, ma soprattutto la coesione e la credibilità del paese che essi rappresentano. Credibilità che dipende dalla continuità dell’azione di governo. In quegli organismi intergovernativi (che ormai si riuniscono una volta al mese), i confronti tra i governi sono ripetuti e ciò richiede tempo e coerenza per generare risultati soddisfacenti. Si consideri il Consiglio tenutosi l’altro ieri a Bruxelles. L’Italia è riuscita a far valere le sue posizioni sulla Russia, tuttavia nulla è riuscita ad ottenere sulla riallocazione, negli altri paesi della Ue, degli immigrati giunti sulle nostre coste. Occorrerà insistere con determinazione e coerenza per fare riconoscere le nostre esigenze sulla questione dell’immigrazione. Sapendo che nessuno regala niente a nessuno.

Insomma, la Ue che emerge dai Trattati di Maastricht (1992), poi di Lisbona (2009) e quindi dalle crisi multiple degli ultimi anni è diversa dalla Ue dei primi anni dell’integrazione. In quest’ultima, la Commissione giocava (e, per quanto riguarda le politiche del mercato comune, continua a giocare) un ruolo decisivo. Ciò ha aiutato non poco l’Italia della Prima Repubblica che, politicamente debole e divisa, si era affidata proprio alla Commissione per rappresentare e difendere i suoi interessi. Ma le cose sono cambiate con la fine della Guerra Fredda. La Commissione conta anche oggi, specialmente nella implementazione e supervisione, ma le decisioni sulle politiche strategiche vengono prese negli organismi intergovernativi che aggregano i governi nazionali. Creare un’alleanza con la Commissione è necessario, ma non è più sufficiente. Per fare avanzare le nostre visioni o difendere i nostri interessi occorre “pesare” nel Consiglio europeo e nel Consiglio dei ministri. Ma si può contare solo se si dispone di un governo stabile. Può la riforma costituzionale aiutare l’Italia ad avere governi più stabili di quelli che abbiamo avuto finora? Sì, perché si riduce (con il superamento del bicameralismo paritario) la possibilità di avere due maggioranze politiche diverse alla Camera e al Senato. Sì, perché si consente al governo (con la corsia legislativa a scadenza certa) di fare avanzare i provvedimenti che ritiene prioritari, tra cui quelli necessari per onorare i nostri impegni europei. Sì, perché si consente al governo (razionalizzando i rapporti tra stato e regioni) di meglio controllare gli equilibri finanziari del paese. Naturalmente, quella riforma non basta per darci piene garanzie sulla stabilità governativa, se non si introdurrà in futuro anche il voto di sfiducia costruttiva.

Ebbene, queste considerazioni sono del tutto assenti nelle critiche della riforma. Queste ultime sono ispirate dai libri di diritto costituzionale della prima metà del Novecento, quando l’Europa integrata era appena pensabile. E come spesso succede, le vecchie idee producono paradossi. Si scrive, in importanti quotidiani, che la trasformazione del Senato ridurrà (appunto) i bilanciamenti nei confronti del governo, avviando un’involuzione “plebiscitaria” nel nostro paese. Nello stesso tempo, quegli stessi quotidiani occupano pagine e pagine riportando il contrasto, sulla fondamentale legge di stabilità, tra il governo italiano e la Commissione che, giusto per capirci, contesta un incremento dello 0,1% del nostro deficit pubblico. Così, i nostri critici denunciano la riforma perché toglie il bilanciamento del Senato, senza rendersi conto che la funzione di bilanciamento del governo è oggi esercitata anche (se non principalmente) dalle istituzioni europee, oltre che dall’opposizione parlamentare, dalle corti nazionali, dalla presidenza della Repubblica e dall’opinione pubblica interna. Come si vede, vecchie letture e tanto ideologismo non aiutano a capire la realtà in cui si vive.

Vediamo il secondo punto. Davvero l’esito del referendum, qualunque esso sia, non avrà effetti politici sul nostro ruolo in Europa? In questi giorni stiamo assistendo alla crescita di una vera e propria industria: quella della rassicurazione. Una schiera di politici, studiosi, giornalisti riempiono pagine di giornali e serate televisive per dirci che, in caso di vittoria del No, non succederebbe niente di drammatico. Anzi, senza più Renzi tra i piedi, il processo di riforma riprenderebbe speditamente. Ad esempio, qualcuno ha scritto con gravitas professorale che, dopo il No, le commissioni parlamentari potrebbero prendere in considerazione nuove proposte di riforma. Qualcun altro ha invece sostenuto con gravitas politica che, dopo il No, il parlamento bicamerale potrebbe approvare una legge costituzionale che sciolga il Senato per sostituirlo con un’Assemblea costituente da eleggere in occasione delle prossime elezioni parlamentari. Idee davvero geniali. Pensate un po’, quello che non si è riusciti a fare in 35 anni, potrebbe essere fatto in pochi mesi, per di più dopo un referendum che ha sconfessato una riforma minimalista. E lo dovrebbe fare un’opposizione che più spuria e divisa non si può. Ma anche nel caso che il Cielo si mobilitasse a suo favore, quale rivoluzionaria novità potrebbe emergere dall’accordo tra oppositori che si repellano reciprocamente? La vera produzione che in Italia continua ad abbondare è l’ipocrisia.

In realtà, se vincesse il No al referendum, l’Italia non sarebbe invasa dalle cavallette, ma dovrebbe fare i conti con enormi problemi politici. Si ritornerebbe all’instabilità della Prima Repubblica, anche perché il No aprirebbe la strada verso il ritorno al proporzionalismo di quest'ultima. La spinta riformatrice si fermerebbe. E anzi alcune riforme verrebbero riviste. Ma soprattutto, a Bruxelles, il nostro Paese ritornerebbe a contare come il due di coppe. Magari qualcuno pensa che si possa ritornare anche ai governi dei tecnici. Spero che non lo pensi seriamente, perché ciò trasformerebbe d’incanto Grillo nel nuovo monarca d’Italia. Ha pienamente ragione il presidente emerito Giorgio Napolitano: se si perde questo treno della riforma, occorrerà attendere molto tempo prima che ne passi un altro. Una verità che disturba, tant’è che il presidente emerito continua ad essere oggetto di attacchi, sia da parte di politici volgari che di politici risentiti. C’è da vergognarsi. Il referendum è non solo l’occasione per modernizzare il nostro parlamentarismo, ma anche per sconfessare il gattopardismo che continua a imprigionarlo

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