Il 24 giugno scorso i sudditi di Elisabetta II si sono svegliati convinti di aver votato per l’uscita dall’Unione europea. Oggi, quattro mesi dopo, scoprono che il quesito poneva un’alternativa surreale: «Preferite essere più ricchi o più poveri ?». Nonostante le occasionali scivolate masochistiche che questo Paese sa offrire, la risposta, crediamo, sarebbe stata speculare all’esito della consultazione, con un roboante «sì» a favore di un maggiore benessere.
Centoventi giorni più tardi, dietro la cortina fumogena del criptico slogan «Brexit significa Brexit» tanto caro a Theresa May, va consumandosi un altro dibattito carico di conseguenze per gli standard di vita dei cittadini del Regno. Hard Brexit, soft Brexit o smooth Brexit, ultima nata nella tavolozza lessicale che la signora primo ministro ha messo in campo? Si può considerare archiviata - per ora, almeno - la Brexit morbida che porterebbe Londra nello Spazio economico europeo come la Norvegia. Downing street si è, infatti, ripetutamente sbilanciata a favore dell’uscita dura, prologo apparente, sul filo della logica, all’addio al mercato interno, al ritorno alle regole commerciali della Wto, attenuate da intese bilaterali specifiche e limitate. Smooth Brexit, il cosiddetto distacco dolce, è, invece lo scenario più recente, accennato dalla signora premier al vertice di Bruxelles dei giorni scorsi, quando il presidente francese nello stringerle la mano le ha ricordato che «hard Brexit significa trattativa dura».
Più che una strategia, smooth Brexit è patchwork ambizioso di volontà e desideri. Londra ribadisce di volere riguadagnare piena sovranità sulle frontiere e sulle sue corti rispetto a quelle Ue, pretendendo di restare parte del mercato interno a tutela dell’industria finanziaria che perderebbe il cosiddetto “passaporto” per l’Europa e dell’industria automobilistica, punta più avanzata della manifattura nazionale. Downing street vorrebbe poi poter avviare negoziati informali prima del via ai due anni di trattativa, prologo al recesso dall’Ue.
Infine spinge per un accordo transitorio che metta al riparo il Regno dalle conseguenze di una repentina uscita dall’Unione al termine dei due anni in assenza di un’intesa commerciale dettagliata. Intesa che non potrà esserci se si pensa che per l’accordo Ue-Canada – oggi bloccato dai valloni del Belgio – si sono spesi sette anni.
Il catalogo di Londra è questo, impacchettato nella volontà politica di chiudere un divorzio dolce, «smooth» appunto. Un volemose bene anglo-europeo che esigenze contrapposte rendono impossibile. Fra i paletti (no alla libera circolazione, no alle corti europee) piantati da Theresa May e i desideri che la stessa signora premier sostiene di poter realizzare c’è la volontà dei Ventisette. La Gran Bretagna punta, infatti, a spacchettare la libera circolazione nella Ue, garantendosi pezzi del single market in cambio di limitate concessioni sul movimento dei cittadini. È il cosiddetto cherry picking – cogliere le migliori ciliegie – che le istituzioni Ue e i singoli Paesi ritengono, giustamente, inaccettabile. Per ovvie ragioni politiche: deroghe simili aprirebbero l’uscio alle richieste di altri Paesi, tracciando un’Europa à la carte capace di minare il senso stesso dell’Unione.
Londra ne è consapevole, ma ci prova lo stesso in un negoziato destinato a essere per questo aspro e doloroso. Non solo perché lo guideranno hard liners sui due fronti - Michel Bernier capo delegazione della Commissione è da sempre inviso nei dintorni della City e David Davis, falco Tory, è il neoministro per la Brexit –, ma perché è inchiodato su un passaggio in qualche modo ideologico: il recupero pieno della propria sovranità invocato da Londra sbatte con le logiche della globalizzazione e va nella direzione opposta all’esigenza di condivisione politico-economica alle radici dell’Unione e del mercato interno.
Una divaricazione tanto profonda preoccupa i mercati, pronti ad affossare sterlina e gilt se Londra dovesse scegliere la via della frattura radicale. Una dinamica in pieno svolgimento, frenata, appena appena, dal senso di incertezza residuo sulle mosse del governo.
La sensibilità degli elettori britannici ai costi della non Europa è elevatissima. La volontà di rompere con l’Unione dimostrata con il voto di giugno non coincide affatto con la disponibilità a pagarne il prezzo, né in termini economici diretti, né di occupazione, né di sviluppo. Passato lo shock per l’esito delle urne, passata l’euforia per il miraggio di un quadro macro solo all’apparenza capace di sostenere l’urto della solitudine, si sgretolano, ora, i sogni di chi vorrebbe fare delle isole britanniche l’agile vascello commerciale per bucanieri del terzo millennio. La consapevolezza comincia a prendere il posto delle illusioni e quel “no” alla Ue, sancito solo quattro mesi, si va trasformando nell’improbabile “sì” all’impoverimento nazionale.
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