Commenti

Basquiat, mix unico di cultura e passioni

  • Abbonati
  • Accedi
L'Analisi|Cultura & Società

Basquiat, mix unico di cultura e passioni

Allora, negli anni 70, ancora non usava parlare di «contaminazione», parola un po’ sinistra, da manuale di epidemiologia, oggi così in voga. Però fu proprio in quel decennio, dopo le deflagrazioni del Sessantotto, che si avviò ovunque la commistione tra cultura “alta” e cultura “bassa” o, come si diceva allora, tra “cultura” e “controcultura”. Di quel momento avventuroso e di rivolta, Jean-Michel Basquiat (1960-1988), oggi al centro della mostra prodotta dal Comune di Milano con 24 Ore Cultura, curata da Jeffrey Deitch e Gianni Mercurio, è stato uno dei profeti. Ed è proprio in questo suo ruolo di testimone precoce di un tempo nuovo e multiculturale che si pone il fondamento del successo di cui Basquiat godette già in vita, ma oggi più che mai (il suo dipinto The Devil, 1982, è passato di mano nello scorso maggio da Christie's a New York per quasi 60 milioni di dollari).

Lui era, del resto, un mix vivente di culture e di passioni: nato a Brooklyn da madre di origine portoricana e padre haitiano, newyorkese fino al midollo, ma portatore tanto orgoglioso della cultura afro-caraibica da volerne diventare un simbolo, era anche appassionato di musica no wave e, ricorda Deitch che gli fu amico, era un esponente attivissimo dell’hip hop, movimento nato fra i giovani afroamericani delle metropoli Usa che si nutriva di fenomeni aggregativi come la musica rap, le corse in skateboard e i graffiti. Fu proprio da graffitista che Basquiat esordì, giovanissimo, nella seconda metà dei 70 con l’amico Al Diaz, conosciuto nel liceo per ragazzi “difficili” chiamato, significativamente, “City as School”: i due si firmavano SAMO, e scrivevano enigmatici enunciati sui muri di SoHo, siglandoli con la corona (simbolo della regalità della cultura africana) e con il segno del copyright, che torneranno poi sempre nella produzione pittorica di Jean-Michel. La fortuna del duo nel mondo della New York alternativa, non ne impedì lo scioglimento, annunciato dal “necrologio”, apparso nel 1979 sui muri di SoHo, in cui si leggeva «SAMO is dead». Di lì a poco Basquiat inizierà il suo fortunatissimo percorso nel mercato dell’arte: accadrà in Italia, grazie al gallerista Emilio Mazzoli, che gli organizzò la prima personale, a Modena, nel 1981. Tre delle opere germinali esposte allora, sono ora nella mostra del Mudec, ricca di ben 140 pezzi tra dipinti (anche su vecchie porte trovate in strada), nei quali Basquiat mischia omaggi a Leonardo da Vinci, simboli tribali, citazioni da fumetti, graffiti da strada e parti anatomiche tratte dal celebre manuale Gray's Anatomy, e poi collage, bellissimi disegni e piatti-ritratto. Formata in larghissima misura da lavori della gigantesca collezione di Yosef Mugrabi, integrati da qualche opera di diversa provenienza, che ne colma le poche lacune, la rassegna (aperta da domani al 26 febbraio) si propone come una vera, completa retrospettiva. A scandire il percorso, dopo gli esordi “di strada” e il debutto a Modena (in seguito mercanti più potenti, come la newyorkese Annina Nosei e poi lo zurighese Bruno Bischofberger, lo avrebbero monopolizzato), sono gli indirizzi dei successivi atelier di Basquiat a New York: quello di Prince Street, messo a disposizione nel 1981-82 da Nosei sotto la sua galleria, dove però i collezionisti lo sfinivano con visite continue, strappandogli i dipinti non finiti; quello di Crosby Street (1982-83) e quello di Great Jones Street, del 1984-85, procurato da Andy Warhol, amico e co-autore delle grandi Collaborations (volute dall’accorto Bischofberger), con cui la mostra si chiude così felicemente.

© Riproduzione riservata