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I «pollster» sotto i riflettori

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I «pollster» sotto i riflettori

Nella grande battaglia fra razionalità e improvvisazione che ha definito quest’ultimo miglio di corsa elettorale, la credibilità dei sondaggi è ormai al centro del dibattito.

Secondo i sondaggi Hillary Clinton vincerà il voto popolare con il 49,5% contro il 43,5% di Donald Trump. Ma vincerà soprattutto la maggioranza del voto elettorale, calcolato nei singoli Stati, quello che conta davvero, con 332,4 grandi elettori contro i 204,5 di Donald Trump. Per vincere la Casa Bianca occorre superare la soglia dei 270 grandi voti elettorali.

Ma, un attimo: possibile, come dice Donald Trump, che ci sia un complotto di media, sondaggisti, politici ostili e poteri forti contro di lui? Possibile che i dati siano manipolati? Possibile ritrovarsi con una situazione tipo Brexit, quando si andò a dormire con la vittoria del no e ci si svegliò con una schiacciante vittoria del sì? Possibile infine che i sondaggi siano semplicemente sbagliati? O che gli esperti non siano in grado di sondare la “pancia” del Paese? Tutto è possibile. Trump secondo le elaborazioni di ieri ha solo il 15,4% delle probabilità di vincere contro l’84,6% di Hillary. Quel 15,4% può verificarsi. Che poi si verifichi è un’altra storia.

Partiamo dal complotto: «I risultati sono falsi. È una congiura dei media, dei sondaggisti dei poteri forti. Stiamo vincendo! Smascherate la congiura, andate a votare», ha ripetuto ieri Trump in uno dei suoi comizi. Comizi che spesso raccolgono decine di migliaia di persone. In effetti i suoi appuntamenti elettorali sono più affollati di quelli di Hillary, cosa che sul piano dell’impatto visivo può essere fuorviante. È dunque possibile che il candidato repubblicano si fidi più dei suoi occhi che della scienza pensando alla congiura di quasi 350 sondaggisti diversi. Sarebbe però un primo esempio dello scontro epocale fra razionalità e professionalità da una parte e improvvisazione e superficialità dall’altra, come mai abbiamo visto prima in elezioni americane. E a Trump potremmo rispodere col vecchio proverbio: «Non è tutto oro quel che luccica».

Del resto, che dietro le innegabili folle ai comizi ci siano dati preoccupanti per la sua campagna lo ha riconosciuto uno dei manager chiave di Trump, Kellyanne Conway: «Devo ammettere che siamo indietro nei sondaggi», ha detto l’altro giorno. Il suo è un parere informato: la Conway non è solo una stratega repubblicana, è anche l’ad di una società di rilevazioni, The Polling Company/Women Trend, e non vuole bruciare del tutto la sua reputazione di sondaggista in nome del suo candidato.

Ma non è possibile un risultato tipo Brexit anche in America? Gli esperti dicono di no, spiegano che le componenti demografiche americane, con le minoranze afroamericane, quelle ispano americane e con la forte componente del voto femminile rendono la partita elettorale molto diversa da quella per Brexit in cui le divisioni erano soprattutto ideologiche e non demografiche. Un esempio: se su 100 donne al voto per Brexit si poteva ragionevolmente pensare che la divisione fosse attorno al 50% nel caso di queste elezioni Hillary Clinton ha un vantaggio fra il 23 e il 27% per il voto femminile.

Questo ci porta alle metodologie dei sondaggisti. Nate Silver, il fondatore di 538, ha censito 348 società di sondaggio fra università, centri studi e piattaforme internet per il suo modello. Nella sua lista solo 4 sono escluse perché inattendibili, i risultati delle altre 344 sono invece inclusi nella rilevazione complessiva di tutti i dati disponbili sul mercato. Nel modello si ammette la possibilità di errore introducendo una correlazione: se un candidato vince, diciamo, in Ohio e smentisce il sondaggio precedente che lo dava perdente, è possibile che vinca anche la Pennsylvania dove era considerato perdente come in Ohio.

Nei complessi calcoli statistici, nelle regressioni e negli algoritmi che simulano i risultati, l’obiettivo è di essere prudenti e di ponderare nel modo più aggressivo le possibili deviazioni dallo standard che emerge dai primi risultati. Per depurare i dati si usano modelli che tengono conto di regressioni demografiche e di elementi “fondamentali” (ad esempio dati e indici economici, o il vantaggio di essere già presidente e così via). Nei vari passaggi, quattro livelli in tutto, si tiene anche conto di rimbalzi o cadute dovuti a situazioni speciali, tipo una convention o una notizia inattesa con un forte impatto sull’opinione pubblica. Il modello include anche serie storiche che risalgono al 1972 con i risultati precedenti nelle varie contee dei vari Stati, la penetrazione è, dunque, capillare.

Ciascuna rielaborazione viene incorporata nel risultato del livello precedente portando a una media ponderata che riflette tutti gli input inquinanti possibili su una singola telefonata o una rilevazione via Internet. A quel punto nel caso di 538 (come il numero dei grandi elettori), la procedura viene ripetuta in simulazione fino a 20mila volte per ottenere un risultato quanto più attendibile possibile. E tutti seguono più o meno gli stessi metodi rigorosi. Per loro produrre un’analisi accurata diventa fondamentale perché la credibilità del loro risultato si può tradurre in un flusso importante di clientela privata pronta a commissionare rilevazioni di ogni genere presso i consumatori, il vero business per i pollster.

Accusare dunque, come fa Trump i sondaggisti di manipolazione dati e di complotto è palesemente sbagliato. Certo, se Trump dovesse vincere si tornerebbe a parlare di inefficacia dei sondaggi, della forza dell’improvvisazione contro quella della razionalità. Ma allora si saranno verificate due cose: una vera rivoluzione, che del resto Trump continua ad anticipare ma che non sembra nelle carte. Ma anche il semplice verificarsi di quelle probabilità che, per quanto piccole, prima o poi, come vincere alla lotteria, si verificano.

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