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La sfida digitale lanciata alle imprese

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editoriale

La sfida digitale lanciata alle imprese

Se mai avessimo avuto bisogno di una qualche narrazione pedagogica sul valore dell’innovazione è arrivata dall’Ente europeo dei brevetti e dall’Ufficio per la proprietà intellettuale della Ue. Il 42% dell’attività economica totale in Europa è generato da industrie ad alta densità di marchi, brevetti, disegni registrati (ciò che appunto è classificato come proprietà intellettuale). Ed è un dato in crescita (+3,4% rispetto al 2013) e soprattutto fa aumentare i posti di lavoro e lievitare le retribuzioni che sono, in genere, del 46% superiori rispetto alle buste paga dei settori che non puntano i loro business sulla ricerca.

Questo rende evidente quanto sia corretta la strategia della legge di bilancio di puntare molte risorse (20 miliardi spalmati in più anni) sulla cosiddetta Industria 4.0, l’ultima frontiera dell’innovazione nella manifattura, dove sperimentazione digitale delle fasi di lavorazione e dislocazione dei siti produttivi e della filiera su più aree geografiche fanno la differenza e disegnano il vero “presente futuribile” dell’attività industriale. Una svolta che impone nuovi modi di produrre e anche un nuovo posizionamento sulla gamma dei prodotti di ultima generazione e ad alto contenuto innovativo.

La sfida è lanciata: ora tocca alle imprese rispondere. Senza timidezze anche se ciò dovesse significare crescere di dimensione, allargare il capitale, organizzare fusioni. Ormai la digitalizzazione è la frontiera per tutti.

Fa ben sperare il fatto che l’Italia sia diventato il decimo Paese nella classifica europea sulla richiesta di brevetti con un balzo del 9% nel 2015. Ma stiamo parlando di circa 4mila domande e piuttosto concentrate in alcuni dei settori di punta. Della sfida generale fa parte un corollario: aumentare le quantità e allargare il numero dei comparti interessati all’innovazione.

L’Italia della polarizzazione industriale è chiamata a una scelta indifferibile: va chiusa la forbice che oggi esiste tra le molte eccellenze produttive (e ciò non significa necessariamente grande industria) e le aziende che ancora sopravvivono in settori maturi a basso valore aggiunto, cercando margini nella competitività da costi destinata inevitabilmente a ridursi. Questa sfida vale soprattutto per chi è a metà del guado (e sono ancora tanti) magari tentato anche da forme di parziale sommersione nel cosiddetto lavoro “grigio”, altra scelta sciagurata di sopravvivenza destinata a un tempo effimero e a sicuro fallimento.

La crisi ha già imposto una dura selezione della specie azzerando un quarto della base produttiva dell’Italia e riducendo del 20% gli investimenti complessivi. Produttività è la parola che compendia tutti gli aspetti di questa transizione inevitabile e necessaria. E deve crescere. L’unica strada perché ciò avvenga (e anche più semplicemente per sopravvivere) è innovare, cercare posizionamenti in grado di aumentare il valore aggiunto delle produzioni e creare margini nell’aumento del prezzo, proprio legato al valore del prodotto. E l’Italia può perseguire questa strategia – l’esatto contrario di quella di chi insegue il sottocosto dei fattori, primo tra tutti il lavoro – nella consapevolezza della vasta gamma di offerta di “bello e ben fatto” già così apprezzata nel mondo e certamente destinata a crescere ancora. Il valore aggiunto in diversi settori sta aumentando e anche questo è comunque un buon segnale. Ma il potenziale ancora inespresso è grande.

Chi ha investito – e ha saputo farlo come fanno i veri imprenditori, vale a dire proprio nei tempi più difficili – ha potuto beneficiare del cambio di passo e delle soddisfazioni garantite dai mercati internazionali. Chi non lo ha fatto potrà avere una prova d’appello proprio grazie ai nuovi incentivi.

L’aumento della redditività e degli investimenti si concentra (come dimostrano le ultime indagini) in tre settori: automotive, elettronica ed elettrotecnica. Sono buone le performance sull’estero di beni di largo consumo e di beni intermedi (carta, legno, gomma, plastica) destinate a crescere. Forte la domanda di macchinari industriali e di robot strettamente collegata al sistema di incentivazioni del superammortamento (ora potenziato con Industria 4.0).

C’è anche un dato generazionale di particolare interesse. Ogni giorno in Italia nascono 300 imprese guidate da giovani (dato Unioncamere). Gli under 35 nei primi 9 mesi del 2016 hanno creato 90mila imprese, il 31% del totale (nello stesso periodo 40mila hanno chiuso i battenti). È la fotografia di un unicum in Europa e, soprattutto, segnala una nuova spinta anche dal Mezzogiorno.

IntesaSanpaolo ha analizzato un campione significativo di imprese manifatturiere condotte da giovani (con un capo-azienda o la maggioranza del board con meno di 40 anni): la conclusione è che si sono dimostrate più dinamiche sul piano della crescita del fatturato, soprattutto se Pmi.

Industria 4.0 è allora anche un guanto di sfida lanciato ai giovani. E non è poco nel secondo Paese più vecchio del mondo. Che forse comincia a capire come questo sia uno dei problemi principali.

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