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Più qualità nei progetti e coesione da tutelare

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L'Analisi|L’ANALISI

Più qualità nei progetti e coesione da tutelare

Gli ultimi numeri sui progetti che hanno beneficiato dei prestiti del Fondo europeo per gli investimenti strategici, Efsi, meglio noto come Piano Juncker, sono incoraggianti. Le aziende italiane sono in prima linea nell’uso di uno strumento europeo i cui risultati - nei primi 16 mesi di vita - sono positivi. A vedere la lista delle operazioni principali viene il dubbio che possa trattarsi di investimenti “bancabili”, come usano dire gli addetti ai lavori per indicare un livello di rischio contenuto, e dunque senza il reale bisogno di uno strumento come l’Efsi ma realizzabile con un normale prestito bancario.

Se così fosse, non sarebbe rispettato il criterio della “addizionalità” degli investimenti generati dal Piano Juncker. A Bruxelles respingono questa ipotesi, anche se la proposta presentata dalla Commissione a metà settembre per raddoppiare la durata (fino a tutto il 2020) e gli obiettivi del piano (500 miliardi) per la fase 2 pone l’accento proprio sull’addizionalità, che dovrà essere «rafforzata concentrandosi sui fallimenti di mercato e sulle situazioni subottimali, nell’intento - afferma il testo presentato al Consiglio - di innalzare il livello di partecipazione del settore privato».

Insomma, non si può negare che i risultati della prima fase siano positivi, ma è evidente che la Commissione e la Bei sono consapevoli dell’esistenza di margini per alzare l’asticella. Perciò nel piano Juncker 2.0 hanno messo nero su bianco che bisognerà insistere con maggior vigore sulla «qualità dei progetti». In questo senso potrà essere utile l’interesse che si sta manifestando verso gli strumenti del Piano Juncker anche nel mondo della ricerca applicata: «Come istituto di ricerca applicata - spiega per esempio Paolo Mulassano, vice direttore dell’istituto “M. Boella” di Torino - stiamo studiando un modello per entrare, accanto alle imprese, nella catena del valore che il Piano Juncker sta generando». L’obiettivo di fondo è contribuire alla fase progettuale, con «contenuti innovativi che riducano il livello di rischio dei progetti stessi», rendendo più agevole un maggiore impegno finanziario dei privati. Insomma, un effetto volàno forse inaspettato. Potenzialmente può coinvolgere molti altri soggetti come l’istituto torinese, piccole e grandi eccellenze in Italia e in Europa.

Il nodo però resta sempre quello delle risorse di partenza. Per raddoppiare l’obiettivo di investimenti generati dai prestiti del Piano Juncker, la Commissione europea e la Bei hanno messo sul piatto solo pochi miliardi di euro in più e, incoraggiate dall’esperienza maturata nel primo anno di lavoro, hanno ampliato l’effetto leva. «L’Unione europea - ha scritto in una ricca analisi Loredana Federico, economista di Unicredit - non dovrebbe limitarsi ad approvare l’aumento del finanziamento, ma dovrebbe discutere anche i modi per destinare al Piano Juncker qualcosa di più dei pochi miliardi che ha proposto finora». Il rischio è che ciò avvenga a spese delle politiche europee di coesione, penalizzando le regioni più arretrate e tra queste il nostro Mezzogiorno. L’Italia non avrebbe nulla da guadagnarci.

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