Ti si stringe il cuore: e non è per nulla un modo di dire. Fortuna che le vittime sono poche: e non è una consolazione secondaria, in un cataclisma di questa portata. Ma quel che si vede, per le strade o “a volo d’uccello”, dagli elicotteri, è più che terribile. È disarmante. Qualcosa che ti lascia senza parole perché sai di essere senz’armi di difesa. La lista dei centri colpiti dal lungo e rovinoso sisma nell’area centrappenninica, tra Umbria e Marche, scoraggia solo a leggerla un nome dietro l’altro.
Siamo esattamente nel centro della penisola. Là in Sabina, dove Lazio e Umbria quasi s’incontrano, c’è Rieti: il vero fulcro geostorico d’Italia, per quanto qualcuno lo identifichi nella pedina al centro del tavolo da biliardo del bar Sassovivo di Foligno, è lì, tutto racchiuso nel nome del capoluogo, la città del ferro. Siamo immediatamente a nord del “massiccio d’Italia”, e tra i picchi e le gole della “montagna di Norcia” solcata da stretti cañons dove i torrenti si precipitano con violenza è naturale che, fino dalla preistoria, ci si sia immaginati là uno dei passaggi verso l’Aldilà. Lì, tra Norcia appunto e Ascoli Piceno, c’è l’imbocco dell’erebo, l’Infernaccio. Poco più su, verso un’altura con un laghetto e una caverna, c’è la “grotta della Sibilla”, forse un autentico cuniculo sacro che scende fin nelle viscere della montagna. Era il regno della regina Sibilla, una magna Mater ctonia signora di Sottoterra che troneggia al centro del Guerin Meschino di Andrea da Barberino, grande romanzo cavalleresco tre-quattrocentesco: ancora alla fine del medioevo, mèta di veri e propri “pellegrinaggi pagani” che la Chiesa combatteva.
Terra avara, scoscesa, da sempre disposta a “ballare” inesorabile: terra di pastori nomadi transumanti e di forti, ruvidi agricoltori abituati a lottare contro le gelate e le carestie. Ora, il confrontare la lista dei centri distrutti o gravemente danneggiati – che si aggiunge a quella degli anni immediatamente trascorsi, fin dal terremoto dell’Aquila – con l’elenco dei luoghi d’eccellenza artistica e naturalistica d’Italia, quelli sovente dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità o quelli noti per le loro curiosità turistiche e folkloriche, c’è veramente di che disperarsi.
A Norcia, la bella chiesa di San Benedetto dal trionfante rosone è quasi distrutta. A Fiastra, l’abbazia cistercense che – al pari di tante altre fra Italia, Francia e Belgio – reca il nome glorioso di Chiaravalle caro al più grande mistico del medioevo, a Bernardo doctor mellifluus e miles Virginis Mariae, è danneggiata e si teme lo sia più di quanto non sembri; così a Tolentino tanto al cattedrale di San Catervo quanto la basilica del grande santo gloria locale, il francescano Nicola che in pieno Quattrocento sotto Belgrado predicò la crociata contro i turchi fermandone l’avanzata lungo la piana danubiana. Camerino, la bella città universitaria che nel medioevo era retta dalla generosa famiglia dei da Varano e che assurse a notorietà perché Carlo Alianello vi ambientò il suo curioso “romanzo nero”, Il mago deluso, è rimasta a sua volta danneggiata; e poi ancora Visso, Ustica, e una serie gloriosa di quelle “città minori” celebri e bellissime, famose per la storia e per l’arte, da Cingoli a Matelica a San Saverino. Centri noti per le chiese, i monasteri e conventi, i castelli e palazzi, i prestigiosi prodotti dall’olio al vino ai salumi, le reliquie e le feste religiose che tanto spesso hanno attratto l’attenzione di antropologi e di folkloristi. Tutta l’area del “massiccio centrale italico”, là dove tra le colline del perugino e il colosso della Maiella sembra che l’Appennino si dilati e voglia correre verso le due opposte sponde marine fino a gettarvisì, là c’è il vero tesoro delle nostre radici identitarie: in quelle terre degli umbri, dei sabini, dei volsci, dei piceni, dei marsi, in quell’”umìle Italia” patria di mistici e di capitani di ventura ch’è l’Italia profonda, ch’era già tale allorché secondo il mito vi sbarcò Enea, ch’è rimasta rurale e appartata nei secoli.
Penso a Castelluccio di Norcia, così bella d’inverno quando appariva da lontano, innevata, inaccessibile; Castelluccio, dalla quale vengono le migliori e più pregiate lenticchie rosse del mondo (altro che quelle gialle d’Egitto, altro che quelle verdi francesi!). Castelluccio è rasa a zero, come se d’un tratto il Dio cristiano si fosse ricordato che i suoi abitanti sono stati troppo a lungo adoratori della Sibilla picena e avesse deciso di punirla.
Ma è distrutta anche Norcia, nonostante la sapiente arte antisismica con la quale da quasi due millenni i suoi mastri muratori ne hanno edificato le case, distanziando sapientemente le pietre e alternando travi lignee a file di mattoni o di sassi. È distrutta la chiese di Benedetto, il santo che fondò il monachesimo cenobitico d’Occidente, anche se non lontano da lì, tra la Romagna e le Marche, meno di mezzo millennio più tardi Romualdo da Ravenna gli rispose rivalutando l’eremitismo orientale. Di Benedetto ci parla ammirato nei suoi splendidi Dialogi papa Gregorio I, san Gregorio magno, il pontefice che tra VI e VII secolo fermò con le sue preghiere la pestilenza che infuriava nell’Urbe.
Questo siamo noi. Questa è l’Italia dei piccoli paesi arrampicati sulle alture, l’Italia delle vecchie chiese che i terremoti hanno riempito di crepe, l’Italia dei paesaggi e dei ruderi che hanno commosso per secoli pittori e viaggiatori, l’Italia profonda delle pale d’altare dipinte d’oro di cui parlava Pier Paolo Pasolini quando affermava che solo nella Tradizione stava la sua forza. E la ricostruiremo, perdinci: pietra su pietra, stipite su stipite, rompendo gli stolidi salvadanai dell’austerity. E davanti al portale e al rosone di Norcia non ci sarà, non dovrà esserci, diktat di Bruxelles che tenga.
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