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Manifattura figlia di arte e cultura

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IL SISTEMA PRODUTTIVO

Manifattura figlia di arte e cultura

Il crocifisso tra le macerie della chiesa di San Salvatore vicino Norcia (AFP Photo)
Il crocifisso tra le macerie della chiesa di San Salvatore vicino Norcia (AFP Photo)

Il sisma colpisce al cuore un modello economico e sociale, civile e culturale che, per quanto messo a dura prova dalla Grande Crisi, ha mantenuto finora la sua coesione. La via marchigiana allo sviluppo e al benessere ha sul lungo periodo una originalità, una poliedricità e una coerenza significative. Nel passato, nel presente e – nonostante il trauma del terremoto – anche nel futuro.

Nelle Marche, tutto si tiene. Questa identità complessa ha finora permesso di conservare - in un mosaico dai contorni differenziati ma nitidi - i tasselli dell’industria e dell’artigianato, della bellezza del passaggio e dell’arte, del turismo e della cultura. L’originalità risale all’industrializzazione del secondo dopoguerra. Gli anni Cinquanta e Sessanta. I migliori anni della nostra vita. Quando - in una delle regioni italiane più isolate, con le minori infrastrutture e con scarsissime basi di conoscenza diffusa nel senso classico dell’espressione - i laboratori artigianali si ingrandiscono e diventano piccoli stabilimenti, i piccoli stabilimenti adottano schemi organizzativi complessi e si trasformano in vere e proprie fabbriche. È il periodo dei patriarchi. Primo fra tutti Aristide Merloni che, da Fabriano, contribuisce a fondare l’industria italiana del bianco e a cambiare la vita di tutte le famiglie. Igino Pieralisi da Jesi, con le sue macchine per la lavorazione dell’olio. Dorino Della Valle da Casette d’Ete, l’artigiano delle scarpe il cui figlio Diego trasformerà l’azienda in uno dei marchi del lusso internazionale. La famiglia Guzzini di Recanati che, dalla lavorazione del corno di bue per le tabacchiere, approderà poi al design più sofisticato. A Pesaro Giancarlo Selci, con la Biesse leader mondiale delle macchine per la lavorazione del legno. E, sempre a Pesaro, qualche anno dopo Valter Scavolini con le sue cucine.

Le Marche sono, dunque, comunità di imprenditori. Ma le Marche sono state allora – rimangono oggi e resteranno domani – anche terra di agricoltura e di appezzamenti intensivi, di pievi bagnate dai fiumi e di uliveti appoggiati con la grazia della mano di Dio sulle colline più dolci. I lavoratori – non importa che siano operai o tecnici, artigiani o industriali - sono anche contadini. Lo rimangono nell’intimo. Restano tali nella loro quotidianità. Nessuno di loro abbandonerebbe la casa dei padri e delle madri. Tutti continuano a coltivare i loro campi, a curare i loro frutteti e a sistemare i loro boschi. Questa originalità rappresenta una alterità morbida e virtuosa rispetto alla stravolgente immigrazione, urbanizzazione e “operaizzazione” dei contadini del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia, della Puglia e della Calabria attirati dalle calamite violente di Milano e di Torino, con le loro grandi fabbriche e i loro quartieri dormitorio.

L’amore profondo per la terra e il suo intreccio con l’attività artigianale e – nei casi più modernizzanti – con l’esperienza industriale rappresentano la cifra – esistenziale e antropologica prima che sociale ed economica - della figura del “metalmezzadro”, fissata nelle sue dimensioni individuali e comunitarie dall’economista Giorgio Fuà, fondatore ad Ancona dell’Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione dell’economia e delle aziende. Il “metalmezzadro” è tante cose: il contadino nell’anima che si fa artigiano e, poi, piccolo industriale; oppure il contadino che si fa operaio, in una azienda già strutturata, e poi diventa tecnico e, quindi, evolve anch’egli in imprenditore. Sempre contadino, dentro di sé, rimane. È il protagonista dell’industrializzazione senza fratture.

L’originalità di questa feconda complementarietà fra capannone e terra ha una funzione utile a metà degli anni Settanta, il periodo più nero dell’economia italiana, inflazione e caropetrolio, fine del driver della crescita del dopoguerra e necessità di riorganizzazioni e riqualificazioni tecnologiche. Quando molte delle aziende marchigiane licenziano o mettono in cassintegrazione a zero ore. È allora che il metalmezzadro si toglie la tuta da officina o ripone la giacca da piccolo imprenditore e torna a dedicarsi, per periodi non brevi, ai suoi appezzamenti e alle sue vigne. Garantendo così – a sé stesso e alla sua famiglia, ma anche alla sua comunità allargata, incluse le aziende – un polmone in grado di fornire redditi minimi o aggiuntivi che contribuiscono a tenere in piedi – anzi, a mantenere saldi – i molti sistemi locali che formano le Marche.

Ancora una volta, nelle Marche tutto si tiene. E tutto sembra contribuire a progettare il futuro: questa cura amorevole del territorio, non programmata da nessuno ma espressione del cuore e dei bisogni, dell’interiorità e delle necessità dei marchigiani, ha creato negli anni le condizioni per avere uno dei luoghi più belli d’Italia, alla radice della crescita del turismo, che ormai non è soltanto più dato dalle località di mare, dell’agroalimentare e dei vini. In un cerchio che si chiude, gli imprenditori manifatturieri classici marchigiani stanno, in vari modi, sostenendo e finanziando la bellezza naturale e artistica, in connessione alla cultura di impresa. È il caso per esempio dei Guzzini e dei Clementoni (gli inventori del gioco educativo), che fanno parte dell’associazione “Il paesaggio dell’eccellenza”, che valorizza il legame fra arte e cultura, design e industria, in particolare fra Recanati e Loreto.

Dunque, le Marche di oggi conservano questa identità felicemente multipla. Nonostante la globalizzazione abbia disarticolato molti dei rapporti territoriali che l’hanno caratterizzata dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. Nonostante alcune specializzazioni produttive siano andate fuori mercato. Nonostante la separazione del destino di alcune fabbriche simbolo dalle famiglie fondatrici, come nel caso della Indesit ceduta dai Merloni alla Whirlpool. Questa identità felicemente multipla è ben sintetizzata dall’impresa manifatturiera che, da un artigianato riconducibile nei suoi codici alle arti rinascimentali, mutua il senso dell’unicità del pezzo prodotto, anche nelle produzioni seriali. E che, nonostante i tempi siano cambiati, conserva il rapporto con la comunità locale. È il caso della Tod’s, che mantiene il centro direzionale a Casette d’Ete e che compie ogni anno ingenti investimenti sociali e culturali: asili nido e centri per gli anziani, assistenza ai giovani e formazione per i migliori di loro. Lo stesso fa a Fabriano la Elica, l’impresa della famiglia Casoli specializzata in cappe da cucina.

Il rapporto con il territorio si fa addirittura fisico nel caso della start-up Arca aperta a Angeli di Rosora, in Vallesina, da Enrico Loccioni, un metalmezzadro diventato oggi uno degli imprenditori italiani dell’Industry 4.0 nel segmento della sensoristica, con Bruno Garbini (un tempo produttore di carne bianca) e Giovanni Fileni (oggi primo produttore italiano di carne bio): con le tecnologie della Loccioni gli agronomi monitorano la composizione di tutte le filiere animali e vegetali, dettando i tempi per la rotazione delle coltivazioni. E, così, l’agricoltura rigenerativa permetterà all’uomo di rendere la terra più ricca e fertile. Nelle Marche, nonostante tutto, tutto si tiene.

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