Che cosa c’è al fondo dell’ondata di nazional-populismo che ha preso il sopravvento nella maggior parte dei paesi dell’Europa centro-orientale? Ancor prima che i loro attuali governi erigessero una cintura di muri e reticolati alle proprie frontiere contro gli immigrati, diversi motivi hanno concorso alle fortune politiche dei movimenti d’impronta nazionalistica.
Innanzitutto era rimasto nei paesi dell’Est un grumo di risentimenti per un’anticamera, lunga dieci anni, prima di venire ammessi nel 2004 nella Comunità europea (anche se intanto avevano beneficiato dei fondi strutturali europei e di altre forme d’aiuto, essenziali per le loro fragili economie). D’altra parte l’allargamento delle frontiere della Ue era avvenuto soprattutto per l’esigenza di evitare che alla lunga si creasse a Est una situazione di pericolosa instabilità politica, senza peraltro che questo passo fosse stato preparato convenientemente da una fase di “approfondimento” (come consigliava Jacques Delors e prevedeva il Trattato di Lisbona) in cui venissero messe a punto adeguate riforme nella governance della Ue. Col risultato che sarebbero poi emerse in piena luce le difficoltà, dovute a forti differenze di ordine strutturale, che rendevano particolarmente accidentato il processo d’integrazione dei nuovi partner. Fu anche per questo che al loro interno si diffuse la sindrome di essere dei paesi di seconda o terza fila nell’ambito della Ue. Ciò che contribuì alla riscoperta, in chiave autoreferenziale e nazionalistica, di determinati tratti identitari etnico-religiosi e retaggi storico-culturali mai dissoltisi del tutto durante i regimi comunisti e adesso strumentalizzati politicamente dall’ultradestra.
S’era dunque già diffuso un clima segnato da fermenti ed empiti nazionalistici quando sopraggiunse l’emergenza immigrazione. Sta di fatto che, pressoché in contemporanea con l’accordo siglato a Bruxelles ai primi di ottobre del 2015 per una redistribuzione entro la fine dell’anno di 100 mila profughi, in Polonia il partito ultraconservatore di Jaroslaw Kaczynski riportò nelle elezioni una straripante vittoria su quello liberale di centro del presidente in carica del Consiglio europeo Donald Tusk e polverizzò pressoché tutti quelli di centro-sinistra. Questo suo exploit non fu dovuto a una situazione di malessere economico (in quanto era in corso da otto anni un processo di sviluppo ininterrotto) ma, appunto, a motivi di carattere prettamente nazionalistico a cui i polacchi erano d’altronde estremamente sensibili: da un lato, la diffidenza viscerale di sempre nei confronti della Russia, ulteriormente accresciutasi dopo l’annessione della Crimea, e quindi a una domanda di sicurezza, assicurata di fatto dagli Usa; dall’altro, un’insofferenza non più latente per la posizione preminente della Germania, nei cui confronti la Polonia intendeva far valere le sue prerogative di principale potenza regionale nell’Est europeo. D’altronde a Varsavia non s’erano mai scordati che un tempo appartenevano all’area d’influenza polacca l’Ucraina, la Galizia e le regioni del Baltico.
A moventi frondisti verso Bruxelles sostanzialmente analoghi si doveva il trionfo del Fidesz, il partito nazional-populista di Viktor Orbán in Ungheria nelle elezioni del 2010 con quasi il 68 per cento dei suffragi, replicato due anni dopo all’insegna di un indirizzo spiccatamente conservator-autoritario. A non contare il successo ottenuto da un gruppo ancor più oltranzista, con nostalgie asburgiche e di tendenze neonaziste, come Jobbik. Se nella Repubblica Ceca il partito conservatore euroscettico di Petr Fiala ha cominciato a far sentire la sua voce, e se in Slovacchia il principale partito della destra conservatrice si è piazzato solo al terzo posto nelle elezioni del 2012, invece in Crozia la “Coalizione patriottica”, guidata dal partito nazional-conservatore dell’ex capo dei servizi segreti Tomislav Karamarko, ha ottenuto nel 2013 la maggioranza dei seggi distanziando lo schieramento di centro-sinistra e poi vinto (con Andrej Plenkovic) anche le recenti elezioni anticipate di settembre. Né mancano a Zagabria quanti vorrebbero riabilitare gli “ustascia” di Ante Pavelic, alla guida dello Stato croato sorto nel 1941 sotto l’egida dei nazifascisti. Il modo con cui il nazismo è stato spiegato nella Ddr, come frutto essenzialmente dell’imperialismo, ha lasciato tuttora il segno nelle regioni orientali della Germania dove stanno diffondendosi nazionalismo e xenofobia. Ma se in vari paesi dell’Est il nazionalismo, accoppiato al populismo, è oggi prorompente, va detto che i vertici della Ue non si sono resi conto per tempo del fatto che costituiva un carburante politico altamente infiammabile. E ciò a causa di una navigazione di piccolo cabotaggio e della carenza di una visione lungimirante da parte di Bruxelles.
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