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Dossier Il cocktail populista tra crisi e paura

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Dossier | N. 40 articoliI rapporti della Fondazione Hume

Il cocktail populista tra crisi e paura

Qualche mese fa i cittadini del Regno Unito hanno preferito dare retta a Farage, leader populista dell’Independence Party e favorevole alla Brexit, piuttosto che ai leader dei partiti tradizionali, il conservatore Cameron e il laburista Corbyn. Poco prima, in Austria, l’elezione del presidente della Repubblica (poi annullata: sarà ripetuta il mese prossimo) aveva registrato un sostanziale pareggio fra il candidato progressista Van der Bellen e il candidato populista Hofer, di tendenze xenofobe e anti-europee. Fra un paio di giorni i cittadini americani sceglieranno fra la candidata democratica alla presidenza Hillary Clinton e il candidato repubblicano Donald Trump, anch’egli populista e xenofobo, come Farage e Hofer.

Tre elezioni, tre casi in cui, comunque vada, la vittoria è stata (o presumibilmente sarà) di stretta misura, e circa metà dei votanti ha comunque mostrato di non disdegnare affatto l’alternativa populista. Ce n’è abbastanza per chiedersi: come mai? Perché, nel giro di pochi anni, un fenomeno importante, ma tutto sommato marginale, dei sistemi politici dei Paesi avanzati ha fatto irruzione sulla scena pubblica sia al di là che al di qua dell’Atlantico?

Abbiamo documentato, in un precedente dossier della Fondazione Hume (pubblicato due domeniche fa, e disponibile sul nostro sito), come la geografia del populismo in Europa sia profondamente cambiata. Oggi, nei Paesi dell’Unione, i partiti populisti o euroscettici sfiorano il centinaio, e sono presenti in 24 Paesi su 28. Comunque si definiscano i confini esatti del fenomeno, il suo peso è approssimativamente raddoppiato fra il 2009 e il 2014 (ultime due elezioni per il Parlamento Europeo). E tutto fa pensare che, dal 2014, possa essere cresciuto ancora: una stima prudente della forza dei movimenti euroscettici o populisti (forze ESP, d’ora in poi) è che, nel 2016, essi attirino circa un elettore su tre.

Ora un nuovo dossier della Fondazione Hume offre qualche spunto di riflessione sulle cause dell’avanzata populista in Europa. Su questo, come noto, i pareri di studiosi e osservatori sono alquanto divisi. Per alcuni la matrice del populismo sono le politiche di austerità (con conseguente aumento delle diseguaglianze), che le classi dirigenti europee avrebbero imposto ai loro popoli. Per altri, invece, l’elemento cruciale che ha favorito l’ascesa dei movimenti populisti è l’ingresso disordinato e illegale dei migranti in Europa, soprattutto a partire dal 2011, a seguito delle crisi esplose in Africa e in Medio Oriente. Inutile aggiungere che la prima spiegazione è la più congeniale alla sinistra, la seconda alla destra.

Secondo il dossier della Fondazione Hume, tuttavia, entrambe queste spiegazioni sono poco compatibili con l’evidenza empirica disponibile. Non solo perché né l’una né l’altra spiegano il fenomeno Trump (gli Stati Uniti hanno accuratamente evitato le politiche di austerità, e non hanno subito alcuna esplosione del flusso di immigrati), ma perché, anche in Europa, le variabili che meglio spiegano l’avanzata delle forze ESP paiono essere altre.

Sul versante dell’economia, la variabile cruciale non è l’adozione di politiche di austerità (supervisione della Troika, risanamento dei conti pubblici), né l’aumento delle diseguaglianze, né la caduta del Pil, ma l’ampiezza della crisi occupazionale, indipendentemente dalle politiche che possono averla determinata.

Sul versante sociale, la paura dell’immigrazione pare effettivamente aver alimentato il consenso alle forze ESP, ma non risulta essere stata la variabile più importante. Dietro l’avanzata populista ed euroscettica sono all’opera anche altri fattori, sia oggettivi sia soggettivi: i tassi di criminalità dei vari Paesi europei (specie il numero di furti per abitante), che alimentano le preoccupazioni per l’immigrazione, ma soprattutto la paura del terrorismo che, specie nei Paesi vittime di attentati gravi e relativamente recenti (Belgio, Francia, Regno Unito), era molto forte al momento del voto per il Parlamento Europeo (maggio 2014).

Non è tutto, però. Le evidenze statistiche raccolte nel dossier suggeriscono che le due variabili-chiave, crisi occupazionale e paura (dell’immigrazione e soprattutto del terrorismo), interagiscono fra di loro moltiplicando i propri effetti. La crisi non solo sospinge il consenso elettorale verso le forze populiste, ma amplifica gli effetti della paura. Simmetricamente la paura rafforza le spinte populiste, ma al tempo stesso amplifica gli effetti della crisi. A quanto pare, è il cocktail fra crisi occupazionale e paura del diverso, spesso pensato come terrorista prima ancora che come immigrato, l’elemento che ha impresso all’ascesa populista degli ultimi anni il suo ritmo travolgente.

Quando si adotta questo tipo di lettura, che lascia sullo sfondo politiche di austerità e immigrazione, e sottolinea il ruolo cruciale del cocktail “crisi occupazionale + timore per il terrorismo”, diventa molto più facile capire ciò di cui, specie in Europa, ancora non riusciamo a capacitarci, ovvero il fatto che un personaggio come Trump possa aver raccolto tanto consenso: se il populismo è anche una risposta alle angosce generate dalla distruzione di posti di lavoro e dalla apparente invincibilità del terrorismo, allora non è strano che esso alzi la testa tanto al di qua quanto al di là dell’Atlantico.

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